Giornata strana, noiosa e interminabile. Tutto sembra fuori luogo o fuori posto, gli stessi gesti quotidiani, le stesse facce, le solite telefonate, il solito ufficio al sesto piano, la segretaria che mi augura il buongiorno, il cellulare che non smette ossessivamente di squillare, troppe faccende che reclamano la mia attenzione. Oggi però è tutto diverso. Mi siedo alla mia scrivania, spengo il cellulare, comunico alla segretaria di sospendere gli appuntamenti, di non passarmi telefonate. Mi guarda leggermente stupita, si aspetta una spiegazione ma non mi chiede nulla. La ammiro per questo, la sua riservatezza, quegli occhi che sembrano sempre capaci di cogliere ogni mio sbalzo d’umore. Si congeda. Esce dall’ufficio. Resto a fissare un punto indefinito della parete, lasciando vagare la mente a caso, che mi succede? Guardo la città dall’alto. Non c’è alcuna differenza rispetto a ieri e probabilmente non ci sarà differenza nemmeno domani. Vetro, cemento e asfalto, migliaia di formiche che si muovono assorte nei loro pensieri, nei loro drammi personali o nelle loro gioie quotidiane. E io? Quali sono i miei drammi? Le mie gioie? I miei pensieri ? Non lo so ma ci sto riflettendo o meglio ci provo ma non riesco a concentrarmi. Sono nato e cresciuto lontano dalla città, ancora oggi dopo anni da “cittadino” fatico ad identificarmi con la città. Ricordo giochi infantili con i miei fratelli, le corse in bicicletta attraverso prati e strade di campagna, ricordo le estati a volte soffocanti e i gelidi inverni accanto al camino di mia nonna dove lentamente cuoceva la polenta e noi bambini passavamo il tempo rimestando e tenendo vivo il fuoco. Ricordo la neve bianca e soffice, non la grigia fanghiglia della città, la slitta di legno costruita da mio nonno e le litigate per il solo fatto di doverla dividere con i fratelli. Ripenso ai primi anni di scuola, mia madre ancora oggi si stupisce per i ricordi così nitidi che ho di quegli anni, rammento facce nomi e situazioni, come quella volta che scoppiai a piangere perché avevo una spina nel dito e non volendo farmela togliere mia madre mi aveva ammonito che si sarebbe infettato, io vedendo il puntino nero della spina avevo creduto che fosse l’inizio dell’infezione. La maestra mi tolse la spina e mi mise un cerotto che portai con orgoglio per circa una settimana. Avevo cinque anni. Ricordo la morte della mia amata nonna e il senso di smarrimento provato al pensiero che non ci sarebbe più stata lei che mi dava le caramelle di nascosto, non ci sarebbe più stato un fuoco e un paiolo di polenta a cuocere lentamente, non ci sarebbero più state le favole nelle lunghe giornate invernali o le filastrocche sussurrate prima di dormire. Quante giornate felici e ora? Ora sono qui assaporando immagini che il tempo non è stato in grado di sbiadire e capisco le carezze accennate di mia nonna, i baci prima di addormentarmi e i luminosi sorrisi che si aprivano all’improvviso su quel volto rugoso segnato dagli anni, dal lavoro duro nei campi, da un marito morto troppo presto e da tre figlie da crescere e sposare. Penso a mia madre e mio padre ai loro sogni e alle loro speranze, alle delusioni e ai sacrifici e ora? Se potessero vedere quello che ho fatto, dove sono arrivato e l’amore che sono riusciti a trasmettermi di cui credo di aver fatto comunque buon uso. La città palpita e sussulta richiede la mia attenzione e allora via si ricomincia altro giro altro regalo l’importante è essere sempre e comunque se stessi e se qualche volta ho bisogno di ricordare vale la pena di fermarmi un attimo anche solo per accorgermi di quanto fondamentalmente io non sia cambiato.
Loshrike
_____________________________________________
Siamo realisti, esigiamo l'impossibile (Ernesto Che Guevara)