La notte della vigilia dell’Epifania era tradizione
“brusare ea vecia”, si dava fuoco ad una catasta di canne di mais e fascine sopra la quale era stato posto un fantoccio che impersonava una vecchia.
Mentre le fiamme si alzavano alte nel cielo i ragazzini si scatenavano in corse e girotondi. La composizione delle fiamme che si levavano dalla catasta e dalla direzione che prendevano le faville si traevano indicazioni su come poteva essere il tempo dell’anno nuovo e quindi sulla qualità del raccolto.
Di norma se andavano verso occidente o mezzogiorno era segno di buon raccolto perché l’inverno sarebbe stato asciutto, cioè avrebbero spirato i venti del nord; se andavano verso levante o settentrione, il raccolto sarebbe stato magro, perché tiravano i venti dal Garbino o da scirocco.
La tradizione di questo falò si perde nei tempi e aveva il significato di tenere lontane le forze malefiche impersonate dalla vecia strega. Il rogo voleva essere anche un rito propiziatorio per la campagna. Attraverso l’azione del fuoco purificatore venivano eliminati gli spiriti maligni che intossicavano la terra che così immunizzata e fortificata diventava feconda e pronta per dare nuovi frutti.
Non esisteva Babbo Natale e il giorno della Befana era atteso, dai bambini, con ansia. La sera dopo aver appeso un calzino al camino si andava a letto immaginando quella vecchia vestita con un abito nero e uno scialle e che portava una gerla di buone cose.
“La Befana vien de note, con le scarpe tute rote, col capello ala romana, viva viva la Befana”