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Romanino: un pittore in rivolta

Ultimo Aggiornamento: 26/06/2006 14:34
26/06/2006 11:22
 
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A Trento un’ampia rassegna dedicata all’artista bresciano Girolamo Romanino, autore del celebre ciclo pittorico che impreziosisce il Castello del Buonconsiglio.
(23/06/2006) Dopo 40 anni dalla prima e unica mostra monografica tenuta a Brescia, il Castello del Buonconsiglio di Trento organizzerà nell’estate del 2006 un’ampia rassegna dedicata all’artista bresciano Girolamo Romanino (1485-87 - ca. 1560) autore del celebre ciclo pittorico che impreziosisce il Castello, uno dei capolavori della decorazione ad affresco della prima metà del Cinquecento in Italia.



Con la sua pittura realistica, libera e lontana dall’ufficialità del tempo, Romanino rappresenta “l’altro volto del Rinascimento” ed è da considerarsi uno dei precursori del naturalismo di Caravaggio e della modernità.

Al centro dell’esposizione saranno naturalmente gli affreschi del Castello, ed il suo vasto e prezioso apparato decorativo dovuto anche all’opera di altri importanti pittori come il ferrarese Dosso Dossi e il veneto Marcello Fogolino.

La mostra consentirà di ammirare a Trento straordinarie testimonianze pittoriche del Romanino, provenienti da prestigiosi musei e collezioni pubbliche e private italiane ed estere, tra questi il Louvre, la Galleria degli Uffizi, la Pinacoteca di Brera, il Metropolitan di New York, la galleria Doria Pamphilj di Roma e il Museo di Belle Arti di Budapest. Il percorso espositivo presenterà complessivamente un centinaio di opere tra dipinti e disegni, la maggior parte del Romanino, allo scopo di ricostruire tutto l’arco di attività dell’artista nel contesto italiano del tempo. Saranno presentate inoltre opere realizzate da importanti maestri della pittura rinascimentale italiana fra cui Tiziano, Moretto, Savoldo, Callisto Piazza e Altobello Melone.

Curatori della mostra sono: Francesco Frangi dell’Università di Pavia e per il Castello del Buonconsiglio Lia Camerlengo, Ezio Chini e Francesca de Gramatica.
Al progetto partecipa anche Alessandro Nova, professore alla Goethe-Universität di Francoforte, uno degli studiosi più autorevoli del Romanino nonché autore dell’ultima monografia sul pittore pubblicata nel 1994.

GIROLAMO ROMANINO: un pittore in rivolta nel Rinascimento italiano
Trento, Castello del Buonconsiglio
Dal 29 luglio al 29 ottobre 2006

Biografia


Figlio di Luchino, di una famiglia da un secolo insediata a Brescia, ma originaria di Romano di Lombardia, la sua formazione avvenne tra Brescia e Venezia, sul Giorgione e sulle incisione del Dürer, come dimostra la Madonna col Bambino, conservata al Louvre ed eseguita verso la metà del primo decennio. Negli anni successivi, l'artista si indirizzò verso i modi illusionistico prospettici milanesi di Bramantino e Bernardino Zenale, databili al 1509, sono gli affreschi con Episodi della vita di Nicolò Orsini, ora conservati a Budapest; dello stesso periodo è anche la Paletta di san Rocco nella chiesa di San Giovanni Evangelista a Brescia.

Datato al 1510 è il Compianto sul Cristo morto, già in San Lorenzo a Brescia e ora nelle Gallerie dell'Accademia di Venezia, dove ai modi della tradizione del “realismo” lombardo si innestano riferimenti cremonesi e ferraresi.

Di questo periodo, dove la prospettiva illusionistica di ascendenza milanese ha la preponderanza, sono: l’affresco con la Madonna, santi e committenti per la chiesa di San Pietro a Tavernola Bergamasca, la Pietà in San Francesco a Brescia, e due coppie di santi, divise tra la raccolta Cunietti di Milano e il Museo di Kassel, un tempo parte di un polittico commissionato nel 1511.

Successivamente è a Padova, dove nell’aprile del 1513, l'artista fu incaricato dai Padri Benedettini del Monastero di Santa Giustina di realizzare la pala dell’altare maggiore, un esplicito riferimento a Tiziano, di cui potè studirae i tre affreschi della Basilica del Santo, nella pala riaffiorano anche, nell'architettura bramantesca della volte a botte che sovrasta le figure, ricordi della formazione lombarda. Gli stessi padri gli commissionano un “cenaculo”, per il refettorio del convento, probabilmente precedente cronologicamente alla pala, mentre erano già state realizzate dal Romanino due ante d’organo, oggi perdute.

Rientrato in patria sul finire del 1516, in quanto la sua città fu occupata dalle truppe della Lega di Cambrai fino al maggio di quell'anno, il Romanino ripropone i motivi padovani nella Madonna e santi, realizzata per l’altare maggiore della chiesa bresciana di San Francesco, del 1516 circa è la Salomè, ora al Bode Museum di Berlino, archetipo per una serie di dipinti di analogo soggetto eseguiti nel bresciano.

Nel 1517 si recò a Cremona per collaudare gli affreschi di Altobello Melone nella navata sinistra del Duomo; sempre di questo periodo sono la Madonna col Bambino fra i santi Ludovico di Tolosa e Rocco, già a Berlino e ora distrutta e la Madonna col Bambino e i santi Bonaventura e Sebastiano del Duomo di Salò. Tra la tarda estate e l’autunno del 1519 sappiamo che affrescò quattro riquadri, nella navata centrale, con Storie della Passione di Cristo nel Duomo di Cremona, lavoro che doveva continuare con altre scene; ma i nuovi Massari, eletti nel 1520, gli tolsero l’incarico affidandolo al Pordenone.

Nel 1521, inizia, insieme al Moretto, la decorazione della cappella del Sacramento in San Giovanni Evangelista a Brescia, completandola entro il 1524, dove forte è l'influsso del Pordenone, e del Tiziano del Polittico Averoldi, nel 1522 nella chiesa bresciana di San Nazzaro e Celso.

Del 1524 circa è il polittico, già in Sant’Alessandro a Brescia e ora alla National Gallery di Londra. Tra il 1524-25 dipinge le ante d’organo per il Duomo di Asola e, l’anno successivo, ne completa con tavole e affreschi la cantoria. Alla fine degli anni '20 sono databili sia la pala di Brera con la Presentazione al Tempio, che il Sant’Antonio da Padova con donatore del Duomo di Salò e, probabilmente, l'Incoronazione della Vergine con santi, già in San Domenico a Brescia ora conservata alla Pinacoteca Tosio Martinengo, dove forte è l'influenza della coeva pittura del Moretto.

Tra il 1531-32 lavorò a Trento insieme a Dosso Dossi, a Battista Dossi e al Fogolino alla decorazione della nuova residenza nota come il Magno Palazzo, nel Castello del Buonconsiglio, su commissione del cardinale Bernardo Cles, principe vescovo di Trento.

In questo periodo iniziò a lavorare in alcune chiese della Val Camonica: Santa Maria della Neve a Pisogne (Storie di Cristo) Sant’Antonio di Breno; Santa Maria Annunciata a Bienno, lasciando tavole e affreschi intonati a un'epica antiaulica con un forte senso della realtà quotidiana nei gesti, nelle espressioni e nei costumi. Tra il 1539-40 realizzò le ante d’organo per il Duomo Vecchio di Brescia e nel 1540 quelle per San Giorgio in Braida a Verona.

Negli ultimi anni, inizia la collaborazione con il giovane Lattanzio Gambara, nei cicli profani dei Palazzi Lechi e Averoldi a Brescia. L’ultima opera nota, commissionata nel dicembre del 1557, è il Cristo che predica alle turbe nella chiesa di San Pietro a Modena.

Come dipingeva il Romanino

Quando nel primo quarantennio del Cinquecento Romanino percorre le strade sebine e camune per lasciarvi alcune altissime testimonianze della sua arte, queste contrade, per quanto periferiche, sono sufficientemente ricche e culturalmente mature da pensare di affidare ad un artista del suo rango compiti di notevole impegno, quali l'affrescatura di interi cicli pittorici, secondo i modi della più aggiornata arte contemporanea. Non va scordato che le più alte espressioni artistiche valligiane nell'ultimo quarto del Quattrocento si manifestavano (per quanto pregevolmente) facendo ancora ricorso a schemi pittorici del secolo precedente. Un segno d'apertura, dunque, da parte dei valligiani, che oltre a Romanino chiamano ad operare nella loro terra pittori come Callisto Piazza ed altri.
Romanino giunge prima a Tavernola, ancora giovane, appena tornato da Venezia (meta obbligata per la formazione degli artisti bresciani e bergamaschi), probabilmente nel 1512, e vi dipinge la "Madonna in trono con i Santi e i committenti", nella chiesa di S. Pietro. Poi si allontana da queste zone per tornarvi nel 1533, a Pisogne, più maturo e pittoricamente spavaldo. Vi dipinge un importante ciclo di affreschi, reduce dal lavoro eseguito al castello del Buon Consiglio di Trento. Passa successivamente ad operare a Breno e poi a Bienno. Vi sono alcuni scritti che parlano di un dipinto ad olio per S. Giorgio a Lovere, di un affresco raffigurante S.cristoforo a Malonno e di un altro affresco a Vello, dei quali non vi è traccia alcuna.
In quegli anni il pittore era collocato in una posizione intermedia della scala sociale. Alcuni documenti, soprattutto polizze d'estimo, citate da Stefano Fenaroli nel suo Dizionario degli artisti bresciani (1877), tra le quali quelle del 1534 e del 1548, ci danno una visione abbastanza chiara e attendibile della sua situazione economica e sociale. Sappiamo che la sua famiglia era composta da quattro figli, la moglie Paola, due nipoti, un famiglio ed una massara, e che aveva possedimenti ad Urago Mella, precisamente nella contrada "Carretto" e una casa nella contrada Larga, quadra sesta di S. Giovanni a Brescia. Si registrano inoltre alcuni crediti verso Nicolò Orsini conte di Pitigliano, verso il Capitano della Giustizia di Milano e verso "li homini" di Pisogne.
Un divertente aneddoto si è tramandato a proposito del San Cristoforo dipinto a Malonno (ma del quale non vi è più traccia) al quale Romanino aveva dipinto le vesti troppo corte, tanto che la figura venne considerata indecente. Alle lamentele dei valligiani, Romanino rispose che con il denaro datogli per quel lavoro non aveva potuto acquistare panno sufficiente per la veste del Santo. La parcella venne rimpinguata e la veste allungata.
Non è dunque fuori luogo chiedersi perchè un artista come Romanino, di condizione discretamente agiata e lodato dai Vasari per la sue abilità nel disegno e nel dipingere animali e paesaggi, decida di lavorare in una zona tanto lontana da quei rapporti e da quelle personalità della cultura così importanti per gli artisti del periodo, aspetti tenuti ad esempio in gran conto dal contemporaneo e concorrente Alessandro Bonvicino detto il Moretto.
Si possono formulare alcune ipotesi:pensare che Romanino si sposti in provincia perchè vi si offrivano maggiori possibilità economiche e perchè tutto sommato era considerato, a torto o a ragione, un minore dai suoi contemporanei. Ma, visto che questa ipotesi pare smentita dai fatti, occorre piuttosto formulare una seconda ipotesi: che Romanino per sua libera scelta decida di spostare la propria attività verso una zona marginale della provincia. Si può cioè pensare che un artista trasgressivo come lui abbia operato nell'area sebino-camuna in modo così capillare ed intenso perchè in quelle zone il terreno era relativamente sgombro dai paradigmi estetici dettati dalla moda, che altrove portavano la committenza a chiedere raffigurazioni accademicamente auliche, e rappresentava un luogo assai più disponibile ad accogliere la sua pittura forte ed espressiva.
La tecnica a fresco, utilizzata dal Romanino in questa zona, fu molto usata ed apprezzata, dai tempi più antichi almeno fino al Settecento inoltrato. Essa garantisce, se bene impiegata, una lunga conservazione nel tempo; permette inoltre di ricoprire vaste superfici ed infine come scrive Cennino Cennini nel Libro dell' arte di "lavorare in muro che il più dolce o il più vago lavorare che sia".
Lavorare a fresco, oltre ad essere d'uso comune tra gli artisti rinascimentali, costituiva una sorta di metro di misura del virtuosismo pittorico. Scrive infatti il Vasari nelle Vite dei più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani (1550): "a proposito di tutti gl'altri modi che i pittori faccino, il dipingere in muro é più maestrevole e bello, perchè consiste nel fare in un giorno solo quello che nelli altri modi si può in molti ritoccare sopra il lavorato. Era da gli antichi molto usato il fresco, et i vecchi moderni ancora l'hanno poi seguitato".
L'affresco è dunque un modo di dipingere che richiede una notevole destrezza tecnica. In pratica viene steso sopra il muro grezzo, o preventivamente martellinato, un primo strato di intonaco composto da sabbia e calce, detto arriccio, lasciato abbastanza grezzo per favorire la presa del secondo e definitivo intonaco composto da sabbia, calce e polvere di marmo sopra al quale il pittore dipinge con colori che possono essere di cavatura, come tutte le terre, di origine animale o minerale, come rossi ed azzurri. Questi colori vengono disciolti semplicemente in acqua e ciò che li fissa e li fa divenire parte integrante della superficie muraria è una reazione chimica, la carbonatazione: la calce, a contatto con la componente inerte rappresentata da sabbia e polvere di marmo, assorbe l'anidride carbonica presente nell'aria trasformandosi in carbonato di calcio, elemento non più solubile.
Il pittore, ancor prima di giungere alla fase del dipingere vero e proprio, esegue una serie di operazioni. Sull'intonaco sottostante traccia a grandi linee la struttura del dipinto, la cosiddetta sinopia, e qui decide in quante "giornate" organizzare il lavoro. La "giornata" è quella porzione di intonaco fresco sul quale è possibile dipingere appunto nel corso di un solo giorno, finchè l'intonaco preparato al mattino è ancora umido. Quindi passa alla stesura della porzione di intonaco fresco ben lisciato sul quale appoggia poi il "cartone" (disegno preparato in precedenza), e a questo punto può effettuare due tipi di operazioni: il "chiodo" che consiste nel ripassare letteralmente con un chiodo tutto il disegno affinche ne rimanga traccia sull' intonaco fresco, oppure lo "spolvero" che prevede la preliminare bucherellatura del cartone lungo le tracce del disegno affinchè passi attraverso i buchi la polvere scura che il pittore applicherà servendosi di un tampone, lasciando così la traccia del disegno da riempire poi con i colori.
Questa sintetica descrizione della tecnica dell' affresco non dà ovviamente conto delle variazioni che ogni artista apportava, degli accorgimenti cui ricorreva e dei segreti che custodiva per ottenere il risultato desiderato. La tecnica variava a secondo del clima e della materia prima reperibile nelle diverse zone, assecondando inoltre il gusto e le mode.
Se si passa ad analizzare il metodo di lavoro del Romanino si ha spesso conferma del carattere intenso e stravagante che alcuni scrittori gli hanno attribuito.
L'affresco di Tavernola Bergamasca, analizzato a luce radente, permette di leggere una dozzina di giornate, più altre cinque per la cornice.



Da questo si deduce che Romanino, se pur giovane, aveva già una destrezza di pennello ed una rapidità di esecuzione notevoli: le tre figure di committenti inginocchiati in basso a sinistra del dipinto. ad esempio, sono state eseguite in un'unica giornata. Con grande probabilità dipingere porzioni di tale entità è andato a scapito di qualche colore che, per mancata carbonatazione, non si è conservato fino a noi. Le vesti dei committenti, sia quelli in basso a destra che quelli a sinistra, presentano così una coloritura grigiastra: si tratta di una base composta da colore molto diluito in acqua e calce, sul quale presumibilmente Romanino ha steso altri colori difficilmente individuabili per l' inconsistenza delle tracce ritrovate.
Non vi è inoltre traccia alcuna di cartone, chiodo o spolvero, ma solamente una linea di colore ocra rossa che funge da abbozzo eseguito direttamente sull'intonaco fresco, lo stesso colore rosso che in questo affresco ritroviamo nelle ombreggiature dei visi e delle mani. Altro elemento particolare è appunto la resa della volumetria dei visi e delle mani: le ombreggiature sono stese con un diligente, quasi accademico tratteggio, che dà una risultante pittorica ma che in realtà ha una struttura decisamente grafica, e la stessa cosa si trova nelle tre teste visibili nel coro della chiesa.
Nella chiesa di S. Maria della Neve a Pisogne, un Romanino più maturo nel 1533 esegue, forse su commissione della confraternita dei Disciplini, un'opera complessa e grandiosa. Qui Romanino comincia a dipingere, come ovvio che sia in un' opera di questa natura, dal soffitto ed è presumibile che abbia iniziato dalle vele più vicine all'entrata.
Le tre campiture di vele si differenziano tra loro per stile pittorico. Vi sono raffigurati sibille e profeti, quelli della prima hanno un'esecuzione accademicamente molto pregevole ed anche i cartigli che tengono fra le mani hanno un senso compiuto; nelle volte seguenti le figure vanno via via deformandosi ed assumono una valenza espressionistica nelle torsioni esasperate dei corpi, i cartigli riportano oltre al nome della sibilla o del profeta alcune lettere risultate indecifrabili.
Anche nelle decorazioni di contorno della singola vela la pennellata diviene più veloce e disomogenea. I cieli ritagliati nelle vele conservano solamente poche tracce di azzurro, e qui si può ipotizzare, data la difficoltà oggettiva di far carbonatare i colori di origine minerale, una stesura a secco dell'azzurro (dato peraltro accertato nel caso degli azzurri negli affreschi del castello del Buon Consiglio di Trento, eseguiti l'anno precedente).
Gli intonaci usati per questi affreschi sono stesi spesso grossolanamente e visti a luce radente presentano delle parti rattoppate con un intonaco dalla granulometria più grossa; si trattava probabilmente di un metodo di correzione degli errori. Romanino, infatti, anche qui si distingue per decisione e originalità, non essendovi traccia di cartoni ma solo il solito disegno preparatorio eseguito con il colore rosso e il segno della battitura dei fili, metodo consistente nel tendere uno spago tra due chiodi e quindi farlo battere sporco di colore sull' intonaco fresco così da lasciare come traccia delle linee rette usate per la costruzione delle architetture.
Tornando agli intonaci, essi risultano chiaramente composti da calce, sabbia del locale fiume e pochissima polvere di marmo. L'utilizzo della sabbia del fiume Oglio determina sulla superficie delle microcadute di colore lasciando in evidenza le particelle di origine minerale che le hanno provocate, facilmente individuabili perchè brillano. L'intonaco di Romanino è qui stato steso sopra a degli affreschi precedenti dei quali sono visibili alcuni frammenti.
L'utilizzo dei colori in S. Maria della Neve è piuttosto vario così come varia il colorismo nelle diverse pareti, quasi come se l'artista avesse voluto richiamare per ogni narrazione una tendenza pittorica diversa.
Lo stato di conservazione degli affreschi di Pisogne è tale per cui ciò che risulta per noi oggi visibile è solo una parte di quello che Romanino aveva dipinto. Questo è facilmente dimostrabile nel caso dello "smaltino" (tecnica di stesura per azzurro a calce su intonaco quasi asciutto da eseguirsi in più strati) chiaramente giunto a noi solo nel primo strato. individuabile per il caratteristico colore grigiastro; sorte analoga ha subito la malachite, colore verde che solamente con certe precauzioni particolari può essere reso ad affresco per via della sua natura minerale e della insolubilità in acqua. La malachite è peraltro nel ciclo degli affreschi di Pisogne il colore più prezioso fra quelli presenti.
In alcuni casi si direbbe proprio che Romanino abbia utilizzato del tutto intenzionalmente la base di intonaco come colore. Altra particolarità degli affreschi di S. Maria della Neve sono i frequenti craquelure, fitte crepe superficiali che in genere si creano a causa della presenza di dosi incontrollate di calce nell' intonaco.
È molto chiaro come, a differenza dei dipinti di Tavernola, in quelli di Pisogne si incontri un Romanino pittoricamente più maturo. Non vi è più quel modo di rendere i volti con ombreggiature grafiche, ma una fluidità pittorica che da Francesco Paglia, critico seicentesco, viene definita "sprezzante" (nel senso di "disinvolta") per la particolare velocità d'esecuzione e la voluta noncuranza. Una noncuranza cui è da attribuire anche il curioso particolare constatabile nella parete di destra nella terza campata, dove è raffigurata la Salita al cielo, nella quale si trova il segno di un evidente pentimento sul quale il pittore non ha praticato il benche minimo tentativo di correzione: nella linea di mezzeria longitudinale, all'altezza delle mani della Vergine, c'è la traccia evidente di un paio di piedi abbozzati con il solito colore rossastro ma non colorati. Probabilmente da lì doveva partire un'altra figura, ritenuta poi inopportuna.
Non si può dire che Romanino abbia prestato più attenzione o maggior cura al registro basso, dove l'occhio attento può cogliere ogni particolare. La stesura dell'intonaco rimane grossolana, ma ciò che più stupisce sono quelle figure costrette nello spazio dei riquadri quasi senza respiro, con mani e piedi contornati, con forte contrasto, da un colore terra scura, a volte nero, eseguito con un pennello molto grosso, della stessa misura di quello utilizzato per le figure delle pareti superiori che sono però molto più grandi.
Su questi affreschi si trovano molte tracce di pasticca cerosa, base utilizzata per far aderire la foglia d'oro, posta a finimento di cavalli, manti e lance. Elemento che può sembrare in contrasto con il modo di dipingere romaniniano ma che sicuramente rientra a pieno titolo nel gusto manieristico del periodo.
Lungo la "via del Romanino" risalendo la Valle, si incontra la chiesa di S. Antonio a Breno. Romanino vi giunge nel 1536 e dipinge tre pareti del presbiterio con le storie di Davide.



Si sente una forte continuità tra queste opere e quelle di Pisogne, sia dal punto di vista pittorico che da quello tecnico, lo stesso gusto per la raffigurazione dei personaggi con una forte connotazione fisiognomica, quasi grottesca. La forza della figura è tale che le strutture architettoniche che scandiscono, intervallandole, le raffigurazioni, sembrano scomparire.
Purtroppo il primo registro in basso della parete di fondo ed alcune zone della parete a sinistra sono molto compromesse, così da rendere difficile l'interpretazione iconografica.
Le stesure delle giornate di intonaco sono, come a Tavernola e Pisogne, molto ampie. Analizzandole si intuisce che Romanino e il suo aiuto stendevano l'intonaco come risultava più comodo, seguendo la struttura a piani del ponteggio, non curandosi del fatto che per eseguire un buon affresco le giunte di giornata devono seguire il più possibile i contorni di figure ed architetture. Sono invece verificabili in questo caso scelte paradossali, come la giunta che taglia di netto le gambe dei personaggi ed il cane nella parete sinistra in basso, oppure la piccola scimmia, nella stessa parete in alto, che ha la testa dipinta sulla giornata superiore, che ormai carbonatata non ha conservato i colori.
La superficie dell'intonaco presenta molte microcadute dovute alla sabbia del fiume Oglio che, salendo verso la Valle, presenta una componente più accentuata di particelle minerali.
Come a Pisogne, anche in S. Antonio Romanino dipinge su di una base di affresco precedente. Ne è stata rinvenuta traccia al di sotto della pala di Callisto Piazza.
Le tracce di pasticca cerosa sono qui piccolissime e scarse, a differenza di Pisogne dove la finitura dorata doveva avere un impatto visivo di notevole entità. In S. Antonio è invece difficile stabilire se vi fosse una finitura d' oro.
Nel 1541 Romanino giunge a Bienno e, nella chiesa di S.Maria Annunciata, dipinge nel presbiterio tre pareti raffiguranti le storie della vita di Maria.



La parete di fondo è stata probabilmente snaturata nel Seicento dall'inserimento della pala, mentre lo Sposalizio della Vergine e la Presentazione al tempio sono chiaramente identificabili sulle due pareti laterali.
La continuità pittorica del ciclo sebino camuno si coglie anche qui, nonostante vi sia un contenimento espressivo delle forme, più pacate rispetto a Pisogne e Breno, e la presenza della struttura architettonica sia più forte e rigorosa.
Dal punto di vista della tecnica si ritrovano come sempre delle ampie stesure di intonaco che con noncuranza seguono le gibbosità dell' irregolare muro in pietra. Una particolare emozione si prova guardando da vicino e a luce radente questi intonaci, perchè oltre ad avere i segni del taglio di cazzuole e arnesi vari. come a Pisogne e Breno, presentano molte impronte lasciate con le mani o con le dita sull' intonaco fresco.
Gli intonaci, composti come gli altri dell' area camuna, presentano correzioni con granulosità diverse, le giunte di giornata sono molto visibili, c'è qualche piccolissima traccia di pasticca cerosa.
In alcune figure si trova una conservazione ottimale anche degli ultimi tocchi di pennello, forse perche l'artista ha in quest'opera ripreso quel modo descrittivo, quasi grafico, seguito a Tavernola, quei dettagli di finitura eseguiti con colore nero o rossiccio che disegnano trame di abiti, colletti, pellicce e ornamenti.
Nello sposalizio della Vergine il manto della Madonna ha perso lo strato finale di malachite, della quale si possono vedere i frammenti rimasti. Nella stessa parete, la giovinetta che regge i fiori conserva degli splendidi esempi di finiture eseguite con bianco di calce molto corposo. Le perline che decorano i capelli hanno uno spessore di alcuni millimetri e questo è un particolare inconsueto per un pittore come Romanino, che ci aveva abituati a colori tanto liquidi da lasciare spesso intravvedere l'intonaco. Altri particolari di finiture ben conservate sono, nella stessa parete, la figura seduta in basso a sinistra, così come, nella parete di fondo, l'abito giallo damascato e contornato da pelliccia della figura a destra nella pala.
È difficile stabilire se fosse d'uso consueto per Romanino dettagliare così minutamente le figure, e se Bienno rappresenti un caso di conservazione ottimale o rappresenti piuttosto la manifestazione di quella nuova forma di espressività cui Romanino si sarebbe rivolto a partire dal 1540.
Dal punto di vista dei colori utilizzati, anche a Bienno c'è una netta prevalenza di terre o comunque di colori non particolarmente preziosi ad eccezione della malachite. Questa rappresenta una costante nelle quattro opere del percorso romaniniano, accomunate su un altro piano dal fatto, rilevato dalle polizze d'estimo, che a Breno e Bienno, come a Pisogne, Romanino continuerà a vantare crediti per il lavoro svolto sino alla morte.

Girolamo Romanino e la cultura del suo tempo

Anni ottanta del Quattrocento. Tre polizze d' estimo indicano date varie, tra il 1484 e il 1487, per la nascita a Brescia di Girolamo Romano, detto il Romanino. È figlio di Luchino, la famiglia è da un secolo ormai insediata a Brescia, originaria di Romano di Lombardia.
La città in cui cresce Romanino, fin oltre la soglia del Cinquecento, è in notevole sviluppo economico. Dal 1428 è inserita nell' economia-mondo della Repubblica Veneta: è florida nelle ferrarezze, nel lanificio e nella gelsicoltura, si avvia alla diretta manifattura della seta.
Il centro cittadino è in rapida trasformazione nel segno del decoro e della magnificenza: vi sono attivi scultori e maestri impegnati nella decorazione della Loggia, del Monte Vecchio di Pietà, della Chiesa dei Miracoli
Quando però, nel 1508-9, Romanino è già alla testa di una sua bottega - come risulta dal contenzioso per il pagamento degli affreschi nel palazzo di Nicolò Orsini a Ghedi - la città va precipitando in eventi tragici: nelle guerre della Lega di Cambrai contro l'espansionismo veneziano in terraferma, sconta nel 1509 l'ingresso del re Luigi XII di Francia (dopo la disfatta dei veneziani ad Agnadello sull'Adda, vicino a Treviglio), quindi nel 1512 il terribile Sacco da parte delle truppe del condottiero francese Gaston de Foix, che la lascia in condizioni disastrose, la popolazione falcidiata (almeno 8mila gli uccisi), provata da congiure, pesti e carestie nel continuo transito di eserciti francesi, austro-spagnoli, fino alla definitiva riconquista da parte dei veneziani, nel 1516. Questi travagli stimoleranno nuovi spiriti caritativi, con la fondazione a Brescia, già dal terzo decennio del Cinquecento, di istituzioni assistenziali.
La pittura del Romanino trarrà da tante peripezie della sua terra una galleria di tipi esotici, di ceffi e soldataglie lanzichenecche a dare un tormento di vissuto - e non solo di stile - a certe fisionomie popolane così come a figure dalla gestualità ora violenta ora ispirata ad un' accorata pietà, di cui fu testimone in quegli anni. Romanino, in quello che sarà letto dalla critica del Novecento come il suo anticlassicismo, dimostrerà di essere uno dei pochi artisti del suo tempo che hanno avvertito sconvolgimenti civili e drammi religiosi. Guerra, carestia, peste, miseria sono elementi evidenti d'un dramma collettivo del mondo popolano, ma i precedenti stilistici per trasporre nella pittura questo mondo Romanino non potè trovarli che nell' animazione brulicante di figure dell' arte tardogotica del Quattrocento fiorita lungo i corsi del Reno e del Danubio, fatta conoscere al di qua delle Alpi attraverso le incisioni.
Il più consapevole interprete dell' incontro tra la mistica tedesca, che avrebbe alimentato la Riforma di Lutero (l' anno della rottura dalla Chiesa di Roma è il 1517), e lo studio umanistico delle statue antiche, dell' anatomia e della prospettiva, fu Albrecht Dürer, che nel 1506, con la Festa del Rosario, aveva lasciato a Venezia in S. Bartolomeo, la chiesa dei Tedeschi, un' opera che Romanino potè vedere e capire nel suo farsi azione sacra nel paesaggio. Nella propria terra invece Romanino trovava nelle sacre rappresentazioni i precedenti che gli avrebbero permesso di ricondurre il sacro all' esperienza quotidiana.
È tradizione, pur senza notizie precise, ma con inoppugnabili riscontri nelle opere, collocare la formazione di Romanino tra Brescia e Venezia. Brescia era la città di cui s'è detto. La Venezia al passaggio tra Quattro e Cinquecento era stata qualificata dall' ambasciatore francese Philippe de Commyens la città più bella e trionfante del mondo, metropoli del commercio e della cultura. Era la città che stampava più libri di tutta l'Europa messa assieme. Romanino matura dunque in un quadro quanto mai stimolante di incontri, di trasformazioni, di prospettive

ciauuu
ul




26/06/2006 11:26
 
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Grazie del consiglio,
ottimo lavoro [SM=x629187] [SM=x629188]
26/06/2006 13:01
 
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Caspita amico hai detto tutto..........che fare?????

Andare solo a vedere!!!!



Keko [SM=g27811]
26/06/2006 14:34
 
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maestro
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alcuni suoi capolavori:


L'inquadratura, i costumi,la luce radente dalla finestrella in angolo,le nature morte fanno di questa scena sacra (1521-24) dal sontuoso colorismo veneto, uno straordinario anticipo di intrno "borghese",domestico,uno scorcio di cui si ricorderà lo stesso Caravaggio.


Natività- Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

Una magica luce di luna emerge questa fulgente e"sinfonia pastorale" dove i preziosismi cromatici piùraffinati, da emulare Tiziano e Savoldo, (l'opera si data tra il 1525-30) si incrociano con elementi di tono rustico,spezzato, tipici della vena pittorica più popolaresca del Romanino.

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