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Stanza numero ventidue

Ultimo Aggiornamento: 26/03/2008 17:16
04/09/2006 10:58
 
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Salve a tutti, ragazzi! il mio nome è Manuel Scandellari e sono un giovane autore emergente bolognese. Sono qui per dare il mio "contributo alla causa", postandovi il mio racconto breve intitolato "Stanza numero ventidue". Se volete, poi, interagire con me e scoprire il mio mondo (sono autore di un romanzo, "Per Sempre", completamente autoprodotto), visitate il mio forum su Ffz: freeforumzone.leonardo.it/viewForum.aspx?f=87123



STANZA NUMERO VENTIDUE

Stanotte ho visto una stella cadente. I miei occhi non hanno avuto nemmeno il tempo di assorbire quell’immagine che il mio cuore già palpitava d’amore e di vita.

Il mio nome è Albino, ho la veneranda età di ottantaquattro anni e sono vedovo.
Mia moglie Rachele è salita in cielo cinque anni fa e non mi è rimasto più nulla in cui credere.
Ricordo ancora quella maledetta sera come fosse ieri. Era luglio ed il caldo opprimente soffocava il corpo e l’anima della mia compagna di vita. La sua malattia non le permetteva di pensare al domani. E il domani, per Rachele, da quella sera non fu più nemmeno una speranza. Si spense lentamente, con il sorriso sulle labbra, nonostante il cancro l’avesse logorata giorno dopo giorno. Più passavano le ore e più vedevo quel bastardo portarsi via mia moglie. Lentamente. Pezzo per pezzo. Cellula per cellula.
Era una donna straordinaria, mia moglie. Non potrò mai dimenticare tutto l’amore che è stata capace di donarmi. Era in grado di trovare positività anche nelle situazioni più spiacevoli.
E poi era bella. Dio, com’era bella. Aveva due occhi azzurri che rispecchiavano la purezza di mari lontani e una chioma liscia e nera che li metteva in risalto. La natura, poi, era stata generosa con i suoi seni, due ripide montagne perfettamente collocate al centro di una dolce pianura. I suoi fianchi erano leggermente larghi, quel tanto che bastava per renderla maledettamente sexy ed irresistibile. Già, irresistibile. E’ anche per questo motivo che non ho mai capito perché scelse proprio me, come fidanzato prima e come marito poi. Non sono mai riuscito a comprendere come, ad esempio, una donna così meravigliosa potesse scegliere un burbero e grasso uomo come me. Ho un ricordo limpidissimo dei miei vent’anni. Avevo quell’età quando la conobbi. Lei era una ragazzina graziosa di diciotto anni, io un brutto uomo appena uscito dall’adolescenza. Adolescenza per modo di dire.
Già, perché ai miei tempi - quando conobbi Rachele correva l’anno 1942 - l’adolescenza non esisteva. Si diventava uomini in cinque minuti. La guerra ti faceva crescere in fretta e potevi solo pensare ad un buon modo per sopravvivere. Non c’era tempo per la timidezza o per i lunghi corteggiamenti. Non c’era tempo per niente. Ci si amava e basta. I più fortunati sono arrivati a festeggiare le nozze d’oro. Chi non ha avuto l’appoggio della buona sorte, invece, non è nemmeno riuscito a consumare la prima notte d’amore.
In tutto quel trambusto di morte e disperazione, il nostro amore è germogliato. Abbiamo visto passare davanti ai nostri occhi più di mezzo secolo. Poi, un giorno, è finito tutto. The end. Titoli di coda. Proprio come al cinema, ma senza lieto fine. La cosa peggiore è stata non riuscire a rendermi conto che il protagonista di quel brutto film ero proprio io. Non ho mai accettato la morte di mia moglie. Non ho mai accettato il fatto di doverla perdere a causa di una malattia per cui l’uomo non è mai riuscito a trovare una cura. Non ho mai più trovato pace, da quel giorno.
Così sono rimasto solo. Io, contro tutto e tutti. Contro me stesso.
La mia unica figlia, Luisa, è stata abbandonata dal marito quando aveva quarantadue anni. Due anni fa, invece, è stata costretta a spedirmi nel posto in cui mi trovo attualmente, l’ospizio “Villa delle rose”. Le mie condizioni fisiche non le permettevano più di svolgere una vita normale. Non la biasimo per questo suo gesto. D’altronde, ormai, ero diventato una specie di vegetale. Le uniche parti del corpo che riuscivo a muovere erano le braccia e la testa. I miei giorni li passavo per il cinquanta percento disteso sul letto e per l’altro cinquanta sopra una sedia a rotelle.
Quello che mi ha deluso parecchio è che mia figlia mi ha portato in questo posto un giorno qualunque, senza nemmeno rendermi partecipe della sua decisione. Senza una parola.
Così, oggi, mi ritrovo qui seduto nel giardinetto della villa. Scrivo a mia moglie, mentre attendo di riconciliarmi con lei. Sono solo. Gli altri ospiti mi considerano un malato di mente solo perché sono colpevole di spedire lettere ad un destinatario inesistente. Gli infermieri e gli assistenti sociali della villa, invece, si limitano a lavarmi, a farmi mangiare e a concedermi un paio di ore d’aria al giorno.
La stanza numero ventidue è la mia cella d’isolamento. I giardinetti rappresentano la libertà.
Due ore al giorno. Non di più. Ormai ho perso anche l’uso della parola e mi viene difficile comunicare con chi è talmente ottuso da non capire che provo un briciolo di benessere soltanto uscendo da quella maledetta stanza.
Ho imparato, in questi anni di solitudine, a gioire per le piccole cose. Non ho più la forza per lottare e l’unico modo per vivere serenamente gli ultimi giorni che mi rimangono è sfruttare il mio tempo per scrivere alla mia adorata moglie. Voglio farle sapere che mi manca da morire. Voglio dirle che la amo, perché durante la nostra vita insieme non sono stato capace di dirglielo tutte le volte che lo meritava. Sarò retorico, o forse pazzo, ma sono sicuro che lei possa leggere quello che le scrivo.

Il sole comincia a scaldare l’aria. Ho la penna in mano e comincio a scrivere.

Mia adorata Rachele,
come va lassù? Qui non tanto bene. Ormai non ho più dignità.
Il fatto è che non riesco più a farmi rispettare. Non ho la forza per pretendere il rispetto delle persone che mi circondano.
Me ne sto andando. Lentamente. Sto per raggiungerti.
Tutti, qui, lo hanno capito. Ormai sono diventato un peso per la comunità.
Non vedono l’ora di assistere al mio ultimo respiro. Anche nostra figlia non aspetta altro.
Non gliene faccio una colpa: d’altronde con i pochi soldi della sua pensione riesce a malapena a pagare la retta di questa prigione.
Ti amo, Rachele. Mi sento l’uomo più fortunato di questa terra.
In fondo non mi interessa niente della considerazione che le persone hanno nei miei confronti.
Tu sei la mia fortuna. La stella che guida le mie notti più buie.
Come si sta lassù? Mi stai aspettando?
Fremo all’idea di poter toccare di nuovo il tuo viso. Voglio baciarti, amore mio.
Voglio che il mio amore ti entri nelle viscere. Voglio sentire il sangue ribollire passione.
Respiro aria per sopravvivere, amore mio. Per vivere ho bisogno di te.
Ti ho mai detto quanto ti amo? Forse si, ma non abbastanza.
Un’infermiera della villa si sta avvicinando a piccoli passi. Vuole portarmi via da qui.
Non ho più tempo. Ti amo, mia dolce Rachele. A domani.


Eccomi di nuovo qui. Stanza ventidue, ovviamente. Mi hanno coricato sul letto.
Appena ho toccato il cuscino con la testa mi sono sentito soffocare. Jenny, questo è il nome dell’infermiera che si occupa di me, si è bloccata per qualche minuto a guardarmi. Ha uno sguardo triste, che non riesco a decifrare. Una lacrima riga il suo volto.
Scappa via, correndo, senza nemmeno lasciare il tempo a quella lacrima di staccarsi dalla sua pelle fresca di ragazza. Sono rimasto di sasso. Non capita spesso di vedere certe cose qui dentro.
Dopo qualche ora, mi trovo ancora sdraiato sul letto a fissare il soffitto. Non è proprio un bel vedere. Ci sono piccole crepe che si aprono al centro e una striscia di muffa sull’angolo destro. Ad essere onesti, tutta la stanza ventidue non si può certo definire il “fiore all’occhiello” della villa. Le pareti sono annerite dal fumo provocato dall’incendio che, tre anni fa, ha colpito l’ala destra dell’edificio. Da quella volta, nessuno si è preso cura di imbiancarle. Del soffitto ho già parlato. L’unica finestra presente è costruita con un legno di pessima qualità, a sua volta ammuffito, probabilmente a causa dell’umidità che qui si fa pesante soprattutto nei mesi estivi. Il fulcro della ventidue è il letto nel quale riposo. Si tratta di un matrimoniale con sponde in legno - lo stesso usato per la finestra - troppo grande per la stanza. Lo spazio vitale è ridotto al lumicino. Certo, non è un problema che mi tocca personalmente. Non essendo in grado di camminare, non mi interessa più di tanto se tra il bordo del mio letto e le pareti ci sono, si e no, quaranta centimetri di spazio calpestabile. Sono in grado, a malapena, di scorgere il colore del pavimento, un rosso intenso che lascia spazio a nugoli di polvere che giacciono lì da chissà quanto tempo. La società privata che amministra la villa non sta passando un periodo semplice dal punto di vista economico, e la situazione si riflette inevitabilmente sulla qualità del servizio. Il personale è sul piede di guerra da parecchie settimane, a causa dei ritardi cronici sul pagamento degli stipendi. Gli ospiti non possono fare altro che subire la situazione in silenzio, complice anche il totale disinteressamento delle famiglie di appartenenza.
E’ quasi passata la mezzanotte e non mi rimane che chiudere gli occhi. Ho bisogno di riposarmi. La notte mi regala sempre un sorriso. Sogno. Sogno continuamente. Sogno Rachele. Spesso sogno anche ad occhi aperti. Non avrei mai creduto che la vecchiaia mi avrebbe dato un privilegio che non ho avuto in gioventù, quando sognare voleva dire vivere. Per lungo tempo sono stato troppo razionale e cinico e non ho mai dato il benché minimo spazio a desideri irrealizzabili. Ho scoperto la bellezza della vita ad ottantaquattro anni perché ho scoperto di essere capace di sognare.
Anche oggi è arrivato quel momento. Smetto di fissare il soffitto. Spengo la luce. Buonanotte.

Le sette del mattino. Sono sveglio. Jenny è piombata nella mia stanza da qualche secondo.
La mia carrozzella è di fianco al letto. Non sono abituato ad alzarmi così presto. L’ultima volta che mi sono svegliato prima delle nove è stato a causa della morte del mio vicino di stanza, tale Raffaele Patrizi.

Erano le sei del mattino, quando l’infermiera di turno fece un urlo che svegliò tutti gli ospiti. Si seppe poi, a distanza di giorni, che Raffaele Patrizi, ex ferroviere in pensione, nato a Milano da genitori siciliani, si era impiccato con la cintura dei suoi pantaloni al lampadario della sua stanza. Era in villa da qualche settimana, portato quasi a forza dal marito della figlia. In poche settimane aveva perso ogni speranza di vivere dignitosamente gli ultimi anni della propria vita. In pochi minuti aveva deciso che non valeva più la pena vivere.

Jenny non dice nulla. Si limita a prendermi di peso e a farmi accomodare sulla carrozzella.
Dopo pochi istanti sono seduto sulla panchina dei giardinetti, carta e penna in mano. Ho trovato il mio taccuino e la mia stilografica nella tasca portaoggetti della carrozzella.
Non mi sono preoccupato di domandarmi per quale motivo Jenny mi ha portato nel mio posto preferito a quest’ora. Mi limito a scrivere.

Mia adorata Rachele,
Oggi mi sono svegliato prestissimo. Da quanto tempo non lo facevo?
Jenny si è presentata in camera mia all’alba, mi ha tirato giù dal letto e mi ha condotto qui, nei giardinetti. Sono rimasto senza parole. In tutto il tempo passato qui dentro,
non mi era mai capitata una cosa simile. Ti ho mai parlato di Jenny? E’ una ragazza giovane,
avrà vent’anni, ed è molto carina. Onestamente credo che qui dentro sia sprecata.
Quando la guardo vedo in lei tanta tristezza. Non parla mai con nessuno degli ospiti e nemmeno con le sue colleghe. Possibile che una ragazza giovane e bella come lei sia così sola?
No, non è possibile. Non voglio crederci, perlomeno.
La solitudine è roba per vecchi, come me. Jenny non può essere sola. Non lo merita.
Amore, ricordi quando ci siamo conosciuti? Beh, volevo farti sapere che quel momento rimarrà per sempre impresso nei miei ricordi come il momento più bello della mia vita. In assoluto.
Non hai idea di come mi batteva forte il cuore nell’esatto istante in cui mi hai chiesto se potevamo rivederci. Ero emozionato come non lo ero stato mai. Di momenti indimenticabili, poi, me ne hai regalati tanti altri, senza chiedere mai niente in cambio. Mi hai amato come ogni uomo desidera di essere amato. Mi hai amato con tutta te stessa, senza mai tirarti indietro.
Devo chiederti scusa, mia amata Rachele. Devo espiare una colpa che non ho potuto farmi perdonare quando eri più vicina a me. Ti ho amata, Rachele. Profondamente. Per tutta la mia vita non ho avuto che occhi per vedere te. Il mio cuore è sempre stato tuo servo fedele.
Quello che mi devasta, amore, è non essere stato in grado di dimostrartelo, di non aver avuto il coraggio di tirare fuori quello che provavo per te.
Perdonami, amore mio. Perdona quest’uomo piccolo e fragile, di fronte alla tua immensità.

Per sempre tuo, Albino.

Dopo quattro ore mi trovo ancora ai giardinetti. Forse si sono dimenticati definitivamente di me. D’altronde, è risaputo, la mia salute interessa a pochi. Sono ormai passate le dieci ed in teoria dovrebbe arrivare qualcuno per farmi l’iniezione quotidiana. Non ho mai capito quale sostanza introducono nel mio organismo. A dire la verità, non me lo sono nemmeno mai chiesto. L’unica cosa che so è che mi fa stare meglio. Sto respirando l’aria ancora fresca del mattino, quando ad un tratto riappare Jenny, siringa in mano. Prende un batuffolo di cotone imbevuto d’alcool, lo sfrega contro il mio braccio e mi inietta il famoso liquido di cui non conosco la natura. Ad un tratto alza gli occhi e mi sorride. Prende un foglietto di carta piegato in quattro da una tasca e me lo porge.
<>, mi sussurra all’orecchio.
Rimango di sasso. Non mi aveva mai rivolto la parola prima d’ora. Sono sinceramente confuso.
Prendo in mano quel pezzo di carta che mi ha lasciato. Lo apro. Lo leggo.

Caro signor Albino,
Quando leggerà questo biglietto sarà molto vicino a riconciliarsi con sua moglie.
L’ultima visione terrena sarà per lei l’immagine dei suoi amati giardinetti.
Non voglio chiederle perdono per quello che ho fatto poco fa, perché non avrebbe senso.
Sono solo una povera infermiera di vent’anni, rimasta orfana del proprio amore.
Si chiamava Luca. Era tutto quello per cui valeva la pena vivere. Un giorno, il mare me lo ha portato via. Per sempre. Da quel giorno non voglio più vivere.
Non ho mai avuto il coraggio di uccidermi. Se lo avessi avuto, oggi non sarei qui.
Ho letto tutte le sue lettere. Quando lei le imbucava dentro la buchetta della villa, io me ne impossessavo e le custodivo gelosamente. Non ho mai conosciuto un uomo più romantico di lei.
Non so quando potrò ritrovare il mio Luca, ma sono certa che lei, tra poco, tornerà tra le braccia della sua amata Rachele. Mi prometta che non smetterà mai di amarla.

Un bacio, Jenny

Il battito del mio cuore si sta facendo sempre più debole. Ho il viso bagnato dalle lacrime.
Non piangevo più dal funerale di mia moglie. Non riesco più a distinguere le immagini e il respiro si sta facendo pesante. Sto arrivando, amore mio. Aspettami.
Jenny è comparsa a pochi passi da me. Non la vedo, ma ne percepisco la presenza.
<>, le dico con un filo di voce, <>
Un brivido freddo scuote il mio corpo, mentre una mano calda si posa sul mio viso.
L’ultimo respiro. Grazie, Jenny.
04/09/2006 15:02
 
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Posso solo dire
stupendo.
04/09/2006 16:35
 
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gran maestro
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uelà, davvero ben costruito, a tratti toccante, soprattutto nel finale

bravissimo

[SM=g27811] [SM=g27811]

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06/09/2006 18:22
 
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sublime maestro
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Notevole.. un racconto davvero notevole si fa leggere e comunica sesazioni.. se permetti un piccolissimo appunto, come lettore e non come critico, eviterei di far usare ad Albino quelle due parole in inglese.. stonano nel suo personale linguaggio e nel suo essere se stesso.
Mia personalissima opinione.

Loshrike
_____________________________________________
Siamo realisti, esigiamo l'impossibile (Ernesto Che Guevara)
19/09/2006 22:36
 
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imbrattatele
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Fratello,
un racconto che sa prendere

fratello,
concordo con losh,
accantoniamo l'inglese

fra Ticello
26/03/2008 17:16
 
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[SM=x629188] Caro scrittore emergente,
se non sei già emerso, emergerai.

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