Ancora una festa (versione integrale)

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loshrike
00venerdì 3 marzo 2006 14:19
Mi vesto. Cerco qualcosa di particolare anche se so benissimo che alla fine non ho alcuna scelta. Smoking, camicia bianca scarpe nere e farfallino. Ho sempre odiato il farfallino, non lo sopporto, ho provato a comprare la cravatta vera e non il solito con i gancetti che si allacciano dietro, mi sono messo anche d’impegno ad imparare a fare il nodo nella giusta maniera ma proprio non la sopporto. Ancora un ricevimento, un’altra stupida festa, uno sfoggio scontato e volgare di ricchezza, potere e arroganza allo stato puro. Banchieri, con al braccio giovani oche che a malapena riescono a non far trapelare il disgusto della vita, commercialisti, avvocati e perché no anche qualche diplomatico sulla cresta dell’onda. Qualche vecchio relitto che non riesce a convincersi di essere invecchiata carica di oro e pietre preziose simboli di una vita guadagnata nei letti di persone importanti e ultimi ricordi di una gioventù sfiorita in un lampo. E poi. Poi ci sono io. Chi sono? Cosa faccio? Da dove vengo e dove vado? Sempre le solite domande esistenziali prive di risposta e inutilmente ripetitive. Io vengo da molte battaglie, ho conquistato la mia posizione con le unghie e con i denti, ho cominciato da bambino a ribellarmi al sistema, la prima volta sono scappato di casa a tre anni ma di quell’episodio ricordo poco o niente, solo le botte. Le altre mie fughe le ricordo molto bene, inseguendo un sogno che mi ha portato lontano e mi ha fatto conoscere veramente la vita. In molte e diverse situazioni ho patito il caldo, la fame, il freddo e la sete, ho rubato per mangiare e ho rubato per aiutare a vivere… ma questa è tutta un’altra storia. Ho fatto mille lavori e combattuto inutili battaglie sempre e comunque sono riuscito a vivere. La mia famiglia mi ha diseredato ed ho dovuto ricominciare a combattere, con le carte, con gli avvocati, con i benpensanti e con loro stessi. Ho ricominciato a studiare, ho preso quella laurea che tutti si aspettavano che prendessi, ho iniziato a costruire il mio impero piegando loro ai miei voleri. La mia battaglia si è combattuta sulla carta ma non per questo è stata meno crudele oggi mi ritrovo qui, amministratore di un gruppo che fattura milioni. Triste che siano sempre le stesse cose a tornarmi in mente, triste che debba per forza partecipare sempre a queste palesi dimostrazioni di opulenza e tristissimo che tutti i miei affari debbano per forza essere conclusi tra i fumi dell’alcol, di un sigaro o i profumi invadenti di sesso comprato. Sono pronto. Resta solo la mia solita maschera glaciale da indossare, mi guardo allo specchio, scopro nuove piccole rughe di stanchezza ma la mia maschera nasconde tutto e mi affretto ad indossarla. Ecco, sono un uomo nuovo e niente può scalfire la mia corazza, non mi resta che prendere le chiavi della macchina e partire. Mi aspettano... Esco di casa, come al solito in anticipo, non ho nessuna voglia di arrivare presto allora salgo in macchina accendo lo stereo e parto. Il cd è sempre quello, Wish you were here.. Pink Floyd, amo molti generi di musica ma i Pink sono la colonna sonora della mia vita. Se ripenso a particolari momenti trovo che sempre una cazone loro ha segnato un momento importante, felice o tristenon importa, sono cresciuti con me. Basta ricordare, non è il momento per sprofondare nel passato, ci sono già le notti per i miei fantasmi inutile evocarli ora. Vago per la città lucida di una leggera pioggia che fa rsplendere le luci sull'asfalto e correre i passanti che hanno dimenticato l'ombrello. Perdo per un attimo la cognizione del tempo osservando i passanti e immaginando le loro storie, il perchè si trovino lì, chi li aspetta o semplicemente forse corrono ad una qualche festa anche loro. Getto un'occhiata all'orologio e decido che l'ora è giunta, quasi senza volerlo sono a pochi metri dalla mia destinazione, la villa risplende di mille luci e di auto di grossa cilindrata che rombano impazienti per entrare. Il cancello in ferro battuto indica la grandezza del ricevimento. Attraverso un parco soffusamente illuminato degno di una fiaba di principi e principesse. Nessuna entrata laterale per me solo la porta principale. Accosto ad un'ampia scalinata in marmo e subito un'inserviente accorre con l'ombrello, gli lascio le chiavi della macchina e mentre mi accompagna all'entrata gli faccio scivolare in mano 50 euro dicendogli di lasciare la maccchina in un posto dove possa andarmene quando voglio. Mi guarda stupito, forse pensa che nessuno è così stupido da lasciare una simile festa prima del tempo, annuisce e mi ringrazia estasiato dalla generosa mancia.
Entro in un atrio arredato con mobili antichi e vasi di porcellana, quadri alle pareti rigorosamente autentici e camerieri che volano impegnati a soddisfare qualsiasi esigenza. Vorrei evitare il solito rito di benvenuto del padrone di casa ma è praticamente impossibile. Il console mi vede subito e presa la moglie sotto braccio si avvicina con un sorriso da squalo che farebbe impallidire chiunque. La donna stracarica di gioielli mi osserva attentamente non riuscendo bene a capire tantacortesia nei confronti di una persona che lei pensa ancora un ragazzino. Il console accortosi dell'incertezza della moglie le sussurra qualcosa e subito un finto sorriso radioso appare sulle sue labbra avvizzite. Sotto la mia maschera sorrido, il rito si ripete, non posso fare a meno di pensare che anche adesso sono loro che hanno bisogno di convenevoli, io so precisamente cosa ci faccio qui. So che una donna mi aspetta e so altrettanto bene che continuerà ad aspettare, niente riesce ormai a sorprendermi. Ho un obbiettivo e nulla mi può distrarre dal raggiungerlo nel più breve tempo possibile, la cravatta mi soffoca e non vedo l'ora di poterla slacciare, è ancora presto. Saluto asciuttoil console e baci la mano della moglie quasi ferendomi il labbro con uno dei molteplici anelli che porta al dito. Esauriti convenevoli e frasi di rito vengo accompagnato nel salone che come ogni volta riesce a rapire la mia anima. Il soffitto è affrscato, stampe pregiate ricoprono pareti ornate da una tapezzeria damascata bellissima. Pochi mobili di nobili origini e un lampadario in cristallo che troneggia al centro della sala. Un sole che illumina ogni angolo cancellando qualsiasi zona d'ombra. La gente è sempre la stessa, mi ritrovo a pensare che forse siano tutte comparse che mi seguono ogni volta che devo recarmi a simili ricevimenti, se non li conoscessi uno per uno dubiterei veramente della cosa. Decine di stupende ragazze intrattengono vecchi dinosauri della politica, della finanza e dell'economia, strsciandosi languidamente a loro o ridendo a battute che nemmeno tentano di capire. Alcune hanno le pupille ridotte a spilli incandescenti altre leggermente si trascinano da un cocktail all'altro sempre accompagnate o accompagnando.Una rapida occhiata ed ecco arrivare la mia intrattenitrice che con movimenti sensuali e indifferenti sembra tagliare la folla senza curarsi di nessuno. Sono io la sua preda. La mia maschera entra nella parte, diventa gelida, impenetrabile e la fissa negli occhi catturandone lo sguardo. A poco a poco la sua sicurezzza viene meno, comincia a sbandare, non capisce cosa succede, non riesce a distogliere gli occhi dal mio sguardo ma allo stesso tempo sa di aver perso la partita. Ha paura ed io bevo la sua paura facendola diventare la mia forza. Arriva ad pochi passi da me, esita un secondo lo sguardo incollato al mio, alla fine mi oltrepassa veloce ritirandosi nell'angolo più lontano che possa trovare. Sorrido al console che ha osservato la scena, lui, imbarazzato distoglie lo sguardo fingendo di salutare un'altra persona, leggo la delusione nei suoi movimenti, vedo le sue certezze sbriciolarsi. Ora sta pensando che forse tutte le voci sulla mia persona non sono poi così assurde. Vago da un angolo all'altro dell'immensa sala osservando le persone, sentendo gli sguardi appuntati su di me, parlando ora di affari ora di banalità con questo o quel personaggio fino al momento in cui per un solo brevissimo istante la folla sembra aprirsi ed io la vedo. Solo un'occhiata. IO ho guardato lei e lei ha guardato me. Reciproco riconoscimento. Le nostre due bellisime maschere si sono sgretolate ed entrambi ci siamo sentiti nudi, spaventati. Inizio a fendere la folla cercando di restare calmo, non ci riesco molto bene, non posso lasciarla fuggire, non posso. Mi sembra di aver percorso chilometri ma sono solo al centro della sala quando lei con lo steso sguardo febbricitante mi appare, mi raggiunge e si ferma come me, immobile. Ci guardiamo e le voci intorno a noi svaniscono, le persone sembrano essersi volatilizzate, sono lì ma si accorgono che qualcosa è successo ma non possono capire. Non gli resta che cercare di allontanarsi il più in fretta possibile. Non mi rndo conto del tempo che passa, proprio perchè il tempo si è fermato, nessuno dei due accenna un gesto solo gli occhi parlano e si raccontano due vite. Ci muoviamo entrambi nello stesso momento, incerti per la prima volta in vita nostra, sussurro il mio nome e sento il suo: Ivonne. Ci spostiamo lentamente verso il fondo della sala, gli altri vedono ancora la nostra maschera, si scansano in fretta evitando il nostro sguardo. Credo che in quel momento entrambi avessimo l'assoluta necessità di raccontarci una vita. Non proferimmo parola, la accopagnai e lei accompagnò me al guardaroba, uscimmo, una sola occhiata e un cenno all'inserviente, la macchina arriva subito. Saliamosenza una parola, lei mi stringe la mano ed io guido senza nemmeno pensare alla strada. Suona il cellulare, non lo voglio spegnere. Lo prendo abbasso il finestrino e lo getto via.
Ivonne sta facendo la stessa cosa col suo. Mi avvicina le labbra all'orecchi mentre con una mano mi slaccia la cravatta, anche lei vola dal finestrino mentre Ivonne sussurra: Ti dava fastidio...". Arriviamo a casa mia, scendo.. lei scende mi prende la mano saliamo le scale, entriamo in sala e ci stiamo spogliando, lentamente la prendo in braccio e baciandola la porto in camera. Mentre la adagio sul letto mi stringe ancora le braccia al collo, le sue guance sono rigate da calde lacrime.. che strano mi accorgo che è successo anche a me..
Ora mentre la bacio ricordo una canzone... ma nonsono i Pink Floyd.

.. dimentichiamoci questa città
bambina amiamoci
dimentichiamoci il freddo che fa
beh, rivestiamoci
ti voglio male da morire
voglio farti impazzire ..


Poi fu il deliro. Un delirio appassionato, prima feroce poi via via sempre più languido, intenso bruciante, alla fine solo l’oblio. Mi svegliai confuso, cercai l'orologio, ricordai di averlo slacciato ma proprio non riuscivo a ricordare dove fosse finito. Cercai con lo sguardo di penetrare il buio che mi circondava e alla fine ad un passo dal letto vidi il lieve bagliore verdognolo delle lancette fosforescenti dell’orologio. Cercai di arrivarci senza uscire dal letto, una strana sensazione mi impediva di abbandonare il calore del corpo di Ivonne. Un vuoto pauroso mi attendeva fuori dal quel letto, o forse il vuoto era solo dentro me, ed io non avevo nessuna intenzione di sperimentarlo, non ora. Riuscii ad afferrare l'orologio e quasi rovinai a terra, guardai l’ora le lancette segnavano le 4.17, cercai con una mano il contatto con il corpo di Ivonne, volevo scaldarmi, il freddo l’avevo dentro, la sfiorai piano per paura che svanisse, per paura di rendermi conto che il mio era solo il sogno di un pazzo. Ivonne si mosse appena, sembrava quasi che assorbisse ed interpretasse le mie emozioni, riflettendole a me purificate, ancora più intense. Cosa avevo letto nei suoi occhi? E cosa aveva letto lei nei miei? Forse una solitudine così profonda e dolorosa che ci costringeva ogni giorno ad indossare quella maschera che con un solo sguardo si era dissolta. La stessa profonda solitudine sinonimo di due vite o meglio due anime segnate da troppe cicatrici, troppe ferite non completamente rimarginate che periodicamente stillavano gocce di rosso sangue rubino. Gli occhi di Ivonne, le labbra, la curva dei fianchi, tutto di lei mi sembrava conosciuto da tempo. Chi sei Ivonne e chi sono io? Quanti fantasmi ti affollano il cuore e quanti affollano il mio. Le lacrime, le tue e le mie lacrime, mischiate e non ancora asciugate. Da quanto tempo non piangevi Ivonne? Io posso dirtelo, se vuoi saperlo, io non piangevo da anni. Troppo abituati a stringere i denti e bestemmiare sottovoce noi, troppo abituati ad attaccare, prima ancora di cominciare a difenderci. Entrambi cresciuti troppo troppo in fretta.. Ivonne. Scommetto che, come è successo a me, è stato tuo padre a farti piangere l’ultima volta. Scommetto che come me hai giurato che a nessuno avresti più permesso di vedere le tue lacrime. Siamo forti noi due, non abbiamo bisogno di niente e di nessuno, troviamo sempre un modo per restare a galla, un modo per vivere, mai per sopravvivere perchè per noi sopravvivere significa aver perso in partenza. Quanti pensieri e emozioni dimenticate sei riuscita a portare a galla Ivonne. Ascolto ogni tuo lento respiro e non riesco a trattenermi da baciarti piano sulla schiena. Non vorrei svegliarti ma in fondo ho bisogno dei tuoi occhi, ho bisogno di sentire le tue parole, ho bisogno ancora dei tuoi baci. Svegliati Ivonne, mentre i miei baci ti accarezzano, mentre le mie mani sfiorano i tuoi fianchi ed io so perfettamente che non stai dormendo. Ho freddo Ivonne un freddo che viene da dentro e che solo tu sei riuscita a cancellare, un freddo che spesso ha attanagliato anche te. In un altro letto in molti diversi letti quel freddo c’è rimasto dentro. Ci hanno usati e gettati come una scatola vuota e noi a nostra volta abbiamo fatto la stessa cosa, usando e gettando via. A noi il freddo ha concesso un’unica tregua. Noi due. Sospiri e lentamente la tua mano cerca la mia, ti volti e mi baci, senza parlare, con un dito segui le rughe che mi solcano il viso, il contorno degli occhi, delle labbra, cerco di parlarti ma un’altro bacio me lo impedisce. "Quanti anni hai?" mi chiedi e subito aggiungi: "Non importa non dirmelo lo so già". Ricambio i tuoi baci e ancora mi accendi, non mi sazio di te, ancora voglio sentire i tuoi sospiri, ancora voglio che tu senta i miei. Ti alzi su un gomito inchiodandomi al letto e con una sola mossa sei sopra me. I tuoi riccioli neri cadono scompostamente sul mio viso mentre i tuoi fianchi danzano lievi sui miei. Placata la furia iniziale ora godiamo di ogni istante. Ogni piccola spinta è una scossa che ci percorre la colonna vertebrale lasciandoci inquieti assetati d’amore, assetati di tutto quello che ci stiamo dando. Ti accarezzo la schiena, le mie mani scorrono sul tuo corpo quasi fosse uno strumento da suonare con calma, con molta attenzione per poter trarre le note più belle, le più intense e profonde che entrambi abbiamo mai suonato. Lento sale l’orgasmo, i movimenti si fanno più decisi, siamo pronti tu ed io pronti a fonderci in una cosa sola assaporando ogni istante colmando i rispettivi vuoti e cancellando il freddo che non riesce più a spaventarci. Sfiniti ci abbandoniamo in un abbraccio senza tempo. La tua testa sul mio petto ad ascoltare i battiti impazziti del mio cuore che da troppo tempo non batteva così per una donna. Sento anche il tuo; Ivonne, martellare furioso sembra dire: siamo vivi!. Aspiro il profumo dei tuoi capelli accarezzandoti la testa intrecciando le mie dita nei tuoi ricci. "Perchè Ivonne?" mi escono spontanee queste parole: "perchè sei arrivata solo ora? Dove sei stata tutto questo tempo? Dove sono stato io?". Ivonne piange, sento le sue lacrime sulla mia pelle ma so perfettamente che non sono lacrime amare, come le stesse lacrime che mi solcano le guance sono lacrime di gioia, di felicità per troppo tempo negata ed esplosa nell’istante di uno sguardo. "non lasciarmi mai, non ora che ti ho incontrato, promettimi che non mi lascerai mai più sola.." Ecco finalmente la tua voce Ivonne, un sussurro che mi scuote la mente, sei vulnerabile ora mi stai dando le chiavi della tua esistenza e sai benissimo di avere già in mano la mia. "Dimmi solo che l'alba non ci troverà cambiati" sussurro, " dimmi che avremo altre notti perchè io ho una vita intera da raccontarti e una vita che voglio ascoltare, la tua". Il chiarore dell’alba inizia ad illuminare la stanza, vedo le curve del tuo corpo e quasi nello stesso istante ti alzi e mi guardi come se volessi imprimerti in mente il mio volto. Indugi un attimo con lo sguardo sul mio petto e con il dito segui i contorni di una macchia di pelle più chiara che ho dalla nascita, poi, esplode il tuo sorriso. Ti guardo stupito e vedo che anche tu hai lo stesso tipo di macchia. Mi guardi e dici:" Li chiamano segni natali. Sono una sorta di marchio che permette a due persone che si sono conosciute in un’altra vita di riconoscersi perchè il destino li ha uniti, la morte li ha separati ma l’amore che trascende anche la morte alla fine li riunirà". Sei seria Ivonne, capisco che non stai scherzando, capisco che è veramente come tu dici. Ti stringo forte e ti sento rabbrividire."Era destino, Ivonne, era destino".
Penso a quest’alba che sta sorgendo, penso a te tra le mie braccia, guardo i vestiti sparsi un po’ ovunque e sorrido a un giorno nuovo, un giorno veramente nuovo. Mi chiedo come sia possibile cambiare una vita semplicemente incontrandone un’altra, mi chiedo mille cose e a nessuna ho sinceramente voglia di rispondere, non voglio fare programmi non voglio gestire ordinatamente la mia vita, non ora non in questo momento. Voglio godermi il tuo abbraccio profondo, Ivonne, voglio scaldarmi col calore del tuo corpo e voglio che tu ti perda dentro di me. Quanto è profondo il nostro abisso? Quanta parte di esso ci è entrata dentro? C’è qualcuno chi ti aspetta Ivonne?
Ho paura a chiedertelo, il silenzio non mi pesa ma quella domanda è sospesa tra noi e non ho voglia di farti domande, ho paura delle tue risposte. Impercettibilmente sento che mi stringi più forte. Capisco che le mie domande sono le tue domande e allora il nostro tempo è agli sgoccioli. Dobbiamo continuare Ivonne, ma come è possibile continuare dopo questa notte? Come posso tornare me stesso dopo averti trovato? Lentamente ti slacci dal mio abbraccio e mi guardi, i nostri occhi si incontrano ancora una volta e ci perdiamo in noi stessi. E’ così difficile parlare. “Adesso cosa succede?” sussurri “Possiamo fingere che nulla sia accaduto?” Non voglio parlare eppure capisco che devo, ti sfioro le labbra con un bacio e cerco le
Parole che con nessuna donna sono mai riuscito a trovare. Ho mille domande da farti ma riesco solo a dire due parole: “Ti amo Ivonne”. Ti vedo arrossire e un timido sorriso ti appare sul volto mentre dici.” Le parole sono importanti per me, credo o meglio ho sempre creduto che non si debbano mai dire certe parole se non si ha l’assoluta sincerità di provare i sentimenti che le stesse parole evocano. Con questo non voglio dire che non ti credo.” Respiri profondamente, sento il tuo cuore accelerare i battiti, e in un solo respiro dici: “Anch’io ti amo. Come mai in vita mia era capitato e mi sembra così facile dire queste parole che per me sono importanti. Ti conosco da qualche ora ma qualcosa dentro me dice che ci conosciamo da una vita”. Ecco, l’hai detto, tutto quello che io provo per te si scioglie nelle tue parole, parole importanti, profonde e sincere. Le mie stesse parole. “Abbiamo una vita da raccontarci e per quanto mi riguarda ho tutto il tempo per parlare e tutto il tempo per ascoltare. Dimmi tu Ivonne, hai tempo per tutto questo?” Le sorrido e Ivonne non riesce a restare seria, sorride anche lei. “Ho tutto il tempo che voglio… ma sinceramente prima dovrei fare una telefonata.. e magari rivestirmi..”. Scoppiamo a ridere entrambi, una risata liberatoria che sembra finalmente rompere il silenzio e anche l’ultimo imbarazzo. Quando finalmente riesco a smettere di ridere dico:” Insomma i cellulari li abbiamo buttati e a quest’ora ci avranno ormai dati per dispersi… qui un telefono c’è.. e in quanto a rivestirci… a malincuore devo darti ragione, se non stiamo più tanto vicini forse è davvero meglio metterci addosso qualcosa..”. Il sorriso di Ivonne le illumina gli occhi e di riflesso anche i miei, mi sento felice… Esco dal letto, raccolgo i boxer e m’infilo in bagno, ho bisogno di una doccia bollente ma allo stesso tempo non vorrei lavare l’odore di Ivonne che sento sulla pelle. Mi guardo allo specchio e vedo lo stesso volto di poche ore prima. Le piccole rughe sembrano scomparse, effettivamente qualcosa è cambiato, mi ripeto, nessuna maschera da indossare.. per il momento. Apro l’acqua della doccia e non appena mi scotta la mano mi infilo sotto al getto fumante. La pelle diventa subito rossa e una strana forza sembra espandersi per il corpo. Un languore generale che voglio assolutamente assaporare fino in fondo. Sento la porta del bagno aprirsi, o forse è solo la mia immaginazione, non voglio aprire gli occhi per guardare, non voglio perdere l’incanto di questo momento. Ad un tratto una mano mi accarezza piano la schiena e subito il corpo di Ivonne, preme contro il mio. Sento il suo abbraccio, il suo profumo che mi avvolge, le sue braccia che mi stringono. Non è nulla di erotico, è la condivisione totale di un amore che è stato delirio di sensi ma che ora è la fusione di due anime che si sono alla fine trovate. Mi volto aprendo gli occhi e l’abbraccio, Ivonne cerca le mie labbra per un bacio caldo, intimo che cancella in un istante un’intera vita di solitudine. Ivonne è li solida concreta e innamorata, allo stesso modo io sento di amarla e di doverle molto più di quanto non riesca a darle. Ci laviamo reciprocamente e restiamo a lungo sotto il getto di acqua bollente che riempie di vapore il bagno. Non parliamo, non è necessario in questo momento, abbiamo tutto il tempo di questo mondo per parlare e nessuno potrà mai farci ritornare alle squallide esistenze che per troppo tempo ci hanno diviso. Usciamo finalmente dalla doccia dimentichi del tempo che trascorre, niente sembra avere importanza, niente è urgente, niente riesce a dividerci. Mi asciugo e sorridendo penso al telefono che forse sta ancora squillando. Mi vesto con lenti gesti misurati aspettando Ivonne che esce dal bagno sorridendomi avvolta in un asciugamano color rosso indiano. Mi sorprendo ad ammirarla pensando a quanto le doni quell’asciugamano, quasi fosse un abito firmato. “Penso dovresti prestarmi qualcosa.. tipo una maglietta, un maglione e un paio di Jeans..” mi sorrise e continuò: “.. e poi magari anche un paio di boxer.. se ne hai un paio che ti vanno stretti ancora meglio…” e rise. Cerco nell’armadio qualcosa che le possa andar bene, per fortuna essendo un sentimentale congenito mi è sempre difficile buttare qualsiasi cosa, trovo tutto e lo lancio a Ivonne che cercando di prenderlo al volo lascia scivolare a terra l’asciugamano. Rido di gusto e lei raccogliendo al volo l’asciugamano me lo lancia correndo in bagno. Penso che sia arrivato il momento di fare un caffè.
Preparo il caffè pensando a tante cose senza metterne a fuoco nessuna. Che giorno è oggi? Non ricordo nemmeno questo e sinceramente no ha nessuna importanza. Il caffè comincia a gorgogliare, spengo la fiamma sotto la caffettiera, prendo due tazzine, lo zucchero, due cucchiaini. Sorrido pensando al numero due, quante volte questo semplice gesto meccanico si è ripetuto solo con il numero uno? Io, me, me stesso... sempre e solo uno. Ci sono state altre notti, ci sono state altre donne ma irrimediabilmente al mattino o io dovevo andare o la lei di turno non aveva tempo per un caffè. A volte nemmeno mi alzavo dal letto sapendo di non avere nulla da condividere con la persona con cui avevo passato la notte, non avevo nessuna parola per lei, niente che valesse veramente la pena dire. Possibile che tutto, quasi una vita intera, possa cambiare nel giro di poche ore? Ivonne interruppe il corso dei miei pensieri. "Mmm caffè.. e a quanto vedo nero come la notte". Niente addosso a lei sembrava banale o scialbo, riusciva ad indossare i jeans e il maglione con una sensualità che aveva dell'incredibile. "Io lo prendo così, nero, forte e senza zucchero.. e in effetti di zucchero ce n'è veramente poco" dissi guardando sconsolato la zuccheriera. Ivonne finse una smorfia "non importa a me basta e poi nemmeno io sono un tipo troppo dolce.." Si sedette accanto a me e sembrò immergersi in una serie di pensieri che la portavano lontano. Io stavo lì sorseggiando il caffè bollente e imprimendomi la sua immagine nella mente, quasi avessi paura che da un momento all'altro potesse svanire nell'aria. Si accorse del mio sguardo e sembrò scuotersi. "Scusami ogni tanto mi perdo nei miei pensieri, oggi però non riesco a mettere a fuoco nulla. Dovrei fare quella telefonata se non ti spiace.." Annuii e le indicai il telefono nel salotto."Io resto in cucina, fai pure con calma e.." Non mi lasciò terminare la frase, si avvicinò, mi strinse le braccia intorno al collo e mi sussurrò all'orecchio: "Non ho un marito e nemmeno un'amante con cui giustificarmi ho solamente una sorella che sicuramente a quest'ora avrà chiamato tutti gli ospedali che conosce. Se già non è andata a denunciare la mia scomparsa.."Riuscii solamente a dire: "Io non ho nemmeno una sorella che possa preoccuparsi.." Mi sorrise e baciandomi brevemente sulle labbra si sciolse dall'abbraccio dirigendosi al telefono. Non volevo comunque ascoltare per cui tornai in cucina e mi versai dell'altro caffè. Non volevo sedermi e improvvisamente mi accorsi che mancava qualcosa, qualcosa di indefinito che sempre accompagnava ogni mattina. Mi fermai a pensare portando la tazzina alle labbra e subito sentii la totale mancanza di suoni o rumori. Una specie di vuoto silenzio sembrava regnare, non solo nella stanza , anche nella strada sottostante. mi avvicinai alla finestra guardando l'orologio, segnava le 8.33, guardai fuori dalla finestra e vidi la città ricoperta da un candido manto bianco. La pioggia della notte precedente si era trasformata in neve che in breve tempo sembrava aver ricoperto ogni cosa. Nevicava ancora. Grossi fiocchi lenti e placidi scendevano fittamente dal cielo grigio ardesia ammantando il tutto di una strana luce abbagliante. Pensai all'aereo che mi aspettava e che sicuramente non avrei preso, forse nemmeno sarebbe partito, ma questo ora non era importante. Ora Ivonne era il centro di ogni mio pensiero. Scrutai ancora la strada, le insegne luminose, le luci colorate che richiamavano l'attenzione sulla festa dell'imminente Natale. Il mio sguardo si posò sulla locandina del cinema dall'altra parte della strada. Quasi non potevo credere ai miei occhi, da quanto tempo non entravo in un cinema?, forse proprio dall'ultima volta in cui avevo visto quel film che oggi era in programmazione: Taxi Driver. Sembrava quasi che il tempo si fosse fermato, quanti anni erano passati dall'uscita di quel film? Feci un calcolo mentale e se la memoria non mi ingannava dovevano essere più o meno venti.. forse venticinque anni. "Mi sento vecchio.." dissi parlando più che altro a me stesso. "Vecchio? Non si direbbe proprio.. almeno non dopo una notte come quella che abbiamo passato.." Senza che me ne accorgessi Ivonne era proprio dietro me e guardava. "Nevica.. ho sempre pensato sin da bambina che la neve fosse una sorta di cura per questo mondo così malato, il bianco così puro, il silenzio che sempre la accompagna, poi inizi a vedere le macchine che la sporcano riducendola ad una poltiglia grigiastra e ti accorgi che veramente non c'è nessuna cura per questo mondo..." Non risposi, restai lì ad osservare la neve cadere, a ripensare a quel film e a dare un senso al tempo passato. "Cosa hai fatto tutti questi anni Ivonne?" chiesi voltandomi e guardandola negli occhi. "Ho cercato di vivere, vivere sempre intensamente ho deciso di non provare alcun rimpianto per tutto quello che nel frattempo perdevo o dimenticavo, ho voluto vivere con il pensiero che forse ogni giorno sarebbe stato l'ultimo, per cui avrei dovuto lasciare qualcosa di me, qualcosa che qualcuno potesse almeno una volta ricordare." Era di nuovo seria Ivonne ma non aveva abbassato lo sguardo, no i suoi occhi cercavano comprensione nei miei, ed erano certi di trovarla. "Tu invece che hai fatto tutti questi anni?".Sorrisi. Mi venne in mente una frase detta da DeNiro nel film “C’era una volta in America”… che alla stessa domanda rispondeva: “Sono andato a letto presto”. Ivonne rise.. “non so nemmeno io quante volte ho visto quel film, allora è proprio vero che abbiamo qualcosa in comune”. La accarezzai e tutte le parole a lungo trattenute confusamente cominciarono a prendere un senso, finalmente tutto sembrava andare al proprio posto come gli ultimi pezzi di un puzzle che avevano finalmente trovato la giusta collocazione. Da dove iniziare? Avevo davanti agli occhi tutte le immagini che ritenevo importanti, gioie, dolori, dubbi, ansie e perché no.. qualche sprazzo di felicità. Mi frenava in qualche modo la consapevolezza di dover rivivere ancora una volta tutto quanto, mi frenava e allo stesso tempo spronava la certezza di poter finalmente parlare con qualcuno che sapesse ascoltarmi senza preconcetti, senza alcuna pretesa di giudicare. Era venuto il momento di seppellire definitivamente i miei fantasmi e solo facendoli rivivere avrei potuto dar loro la libertà che da tempo anelavano. Ivonne attese pazientemente che cominciassi a parlare ed io, tratto un profondo respiro iniziai. “Per raccontarti la mia vita devo fare prima una specie di introduzione e cominciare parlando di musica o per essere più precisi della poesia legata alla musica. Iniziamo da Pink FloYd. Dunque partiamo dal 1987. Che cos’erano i Pink Floyd nell’87 è difficile dirlo, molto o molto poco, dipende dai punti di vista e alla fine non ha poi una grande importanza a livello generale. Per la maggior parte della gente erano solo 4 stronzi che cantavano canzoni in una lingua incomprensibile, per altri una moda da seguire o comunque il ricordo della famosa Swinging London degli anni ’70. La musica psichedelica, Sid Barret pazzo, LSD e molte altre immagini. Per un ragazzo di 17 anni contro tutto e contro tutti i “Pink” erano semplicemente poesia. Quella poesia che non nasce dai libri o dai grandi poeti ma dal cuore, dall’anima comunque agitata dalle tempeste della voglia di libertà e dagli scontri generazionali dovuti al totale rifiuto di una morale piccolo borghese provinciale e incomprensibile.
La poesia, che solo l’anima riesce in qualche modo a metabolizzare e vomitare poi sotto forma di una ribellione congenita, insofferente a qualsiasi tipo di regole esistenziali o formali. Difficile interagire con persone che non ti possono e non ti vogliono comprendere o capire, la strada che ti rimane è l’alienazione intesa come fuga dal deserto che ti circonda perché hai l’assoluto terrore che prima o poi il deserto, quel deserto, ti entri dentro. La costante ricerca di un’anima gemella che ti possa capire, che possa condividere stati d’animo, paure, allucinazioni e tutto il disgusto di una vita che ancora non è riuscita ad annientarti dentro. I Pink erano musica, uno stato di non esistenza dove riposare durante le innumerevoli ed inutili battaglie. Questa ricerca spasmodica non sai mai dove possa portarti, non te lo immagini e in definitiva forse nemmeno ti interessa, la totale alienazione dal mondo che ti circonda?, lame affilate di surrogati di felicità o un’anima che come la tua che sta solamente cercando di non affondare. Nel mio caso, non c’era conforto, nessuna soluzione che mi permettesse di non cadere e così caddi, caddi precipitosamente nell’universo di quell’anima oscura che così a lungo avevo cercato e che per uno strano scherzo del destino si ritrovò una sera, stordita dal troppo alcol, in un bar a rivolgermi frasi scontate. Parlammo a lungo, discorsi a volte incomprensibili, incomprensibili agli altri, per una sera i Pink non suonavano più solo per me ma suonavano per due anime bastarde che avevano avuto la strana fortuna di incrociarsi e che forse avevano trovato il modo di non annientarsi completamente nella solitudine. La vita aveva un nuovo scopo e i giorni bruciavano in discussioni, parole, pensieri e sensazioni di due esistenze che avevano cominciato a rifiorire nuovamente scaldandosi al fuoco di un amicizia che lentamente si stava trasformando in amore. Un amore che ci divorava, facendo il vuoto assoluto intorno a noi, niente e nessuno oltre noi. Mentre l’inverno cedeva il passo ad una primavera fredda fatta di notti infuocate, vissute e maledette e di giorni strani noiosi replicanti senza altra meta che la notte che ci possedeva irrefrenabile. Ricordo tutto di quei giorni, i baci come le liti, le notti di sesso come le giornate di rabbia, piene di insoddisfazione e rancore verso tutte le persone che ci additavano quasi fossimo mostri posseduti da un demone schifoso che non ci faceva ragionare. Le nostre famiglie perbene che tanto piangevano i loro dolci angeli posseduti dall’inferno e che in tutti i modi tentavano di riportarci su quella che loro consideravano la retta via. Senza nessuno, noi, ne demoni ne dei; senza arte ne parte, senza passato e senza futuro senza soldi e senza motivi per averne, senza tutto ma assolutamente sazi di noi due. Mille lavori, mille notti insonni, mille consigli non chiesti e soldi pochi, pochissimi ma sufficienti per fuggire non appena si fosse presentata l’occasione. Lei, che mi rubava ogni respiro, lei che mi capiva e che gridava con me, lei spesso ammalata di ritorno dai suoi e pronta per una nuova fuga non appena si rendeva conto che separati non saremmo sopravvissuti. Lei che non mi diceva di soffrire ed io stupido stronzo che non avevo la lucidità necessaria per capire. E i Pink che continuavano a suonare per noi solamente e a scrivere poesie ignari di dedicarle solamente a noi due che potevamo capirle perché parlavano alla nostra anima. Ma non solo i Pink Floyd. Un’altra era la colonna sonora di quei giorni di tuono, Miles, il grande e triste Miles Davis e la sua tromba che graffiava la notte a volte triste a volte rabbiosa sempre più spesso un urlo che lacerava dentro lasciando l’anima sfilacciata incapace di reggere nuove sensazioni. Strano come tutto questo ci accomunasse e ci consumasse allo stesso modo non lasciando nient’altro che amore. Un amore impensabile e devastante che colmava i ritmi di vita sballati e scomposti che ci imponeva la notte che avevamo dentro. Non vivevo giorno per giorno, non aspettavo il ritorno a casa, se si può definire casa la nostra convivenza, come un rifugio dal mondo; no non era tutto questo, era un altro mondo, spegnevo un interruttore e accendevo me stesso ogni sera, ogni notte, ogni istante che condividevo con Marika. Venne dunque il giorno in cui non si poteva più aspettare, dovevamo andare o fermarci per sempre. Ovviamente il demone aveva già scelto per noi e non ci si poteva opporre. La mia moto era pronta e la meta era segnata, non avevo uno straccio di patente, ma tutto questo non aveva alcun significato, nemmeno il fatto di essere sotto leva e senza permesso per espatriare. Marika mi leggeva dentro e forse avrebbe voluto fermarmi ma il suo demone urlava quanto il mio e si accorgeva di avere troppo poco tempo a disposizione. Troppo poco. Riuscii in un paio di giorni ad avere dei documenti falsi, la vita sulla strada include amicizie strane e a volte molto utili, e un maledetto sabato partimmo senza guardarci indietro e senza nemmeno guardare avanti. La Francia fino a Calais dove Marika crollò e per una settimana fummo costretti a rinchiuderci in un ostello della gioventù facendo la spola tra l’ospedale, dove non volle assolutamente essere ricoverata, e il dottore che sempre più perplesso cercava di farla ragionare. Io non vivevo, io soffrivo con lei e più di una volta tentai di convincerla a tornare ma mi disse che se volevo vederla morire da sola allora avrebbe fatto volentieri la strada di ritorno in treno da sola. Non capivo quanta verità ci fosse in quelle parole, pensavo, e lei me lo lasciava credere, che fosse solo un malessere passeggero. Non appena la sua salute lo permise ripartimmo per l’Inghilterra, ancora oggi quei giorni mi appaiono come se fossero avvolti da una densa coltre di nebbia.. ricordo che avevamo una meta ma entrambi ci rendevamo conto che l’unico bisogno impellente era scappare, forse anche da noi stessi. Arrivammo a Dover in una mattina di pioggia, le scogliere si stagliavano all’orizzonte quasi fossero le mura di una roccaforte impenetrabile, e poi via.. via verso Londra, un’occhiata veloce, non era quello che cercavamo dunque ancora avanti Norwich e Sheffield, Leeds ed infine Liverpool.. la città dei Beatles. Una città prettamente industriale, in decadenza dimentica dei fasti di un tempo, agitata dagli scioperi, dalla disoccupazione e dal governo dalla Signora Tatcher. Il viaggio non sarebbe però finito qui, Liverpool con tutti i suoi contrasti umani e sociali non poteva permettersi di sopportare anche noi e allora eccoci un’altra volta sulla strada o meglio sulla nave che ci portava a Dublino, finalmente l’Irlanda. Sbarcammo a Dublino in una tipica giornata nuvolosa, con il sole che a tratti faceva capolino tra le nuvole lanciando sottili lame di luce che sembravano dare un po’ di colore al grigiore del paesaggio. Marika stava bene, nei suoi occhi leggevo la gioia dell’avventura e tanto a me bastava per dimenticare tutto il resto. Eravamo immortali, certi che niente e nessuno avrebbe potuto scalfire la nostra corazza, eravamo insieme e il demone pareva essersi calmato. Prendemmo alloggio in un hotel modesto ma molto pulito, la proprietaria, un’anziana signora dall’aspetto di un sergente dei Marines, si dimostrò nei modi tutt’altro che brusca o antipatica. Diceva di avere una nipote che somigliava molto a Marika, l’unica differenza, che secondo lei andava a svantaggio di Marika, era il fatto che la nipote avesse dei bellissimi capelli rosso fuoco e una spruzzata di lentiggini che la rendevano incantevole.
Unico suo cruccio era il fatto che avesse voluto andarsene in Inghilterra e non chiamava tanto spesso quanto lei avrebbe voluto ed immancabilmente finiva la frase dicendo: “… comunque è una ragazza con la testa sulle spalle che sa badare a se stessa.. tutta sua nonna” e scoppiava in una fragorosa risata che faceva vibrare anche i vetri delle finestre. La camera non era molto grande ma non mancava nulla e vi si poteva notare una pulizia che avrebbe fatto invidia anche al migliore degli hotel a cinque stelle, però la parte dell’albergo che preferivo era la sala da pranzo. Consisteva in quattro o cinque tavoli in legno grezzo di una solidità eccezionale, coperti da una tovaglia di lino bianca con ricami di fiori che la padrona asseriva di are lei nei momenti liberi. La cosa più bella, a mio avviso, era il grande camino in pietra in cui bruciavano costantemente degli enormi ceppi di legno e che la sera si trasformava in una sorta di pub dove più o meno potevi trovare sempre gli stessi avventori.. “.. amici di lunga data” come amava definirli la signora Corcrane. Immancabilmente ogni sera si radunavano davanti al fuoco con una pinta di Guinness in mano narrando pagine di storia che noi avevamo solamente letto nei libri. Tema principale era la seconda guerra mondiale e ogni sera la signora Corcrane tirava fuori un vecchio album di fotografie ingiallite, in bianco e nero, le foto ritraevano il marito della signora e lei stessa, spesso in atteggiamenti affettuosi; c’erano foto di entrambi prima del matrimonio, ad una festa di paese oppure ad una gita nelle campagne irlandesi, c’erano i volti sorridenti del matrimonio e quelle di un bellissimo bimbo in braccio prima alla madre e poi al padre, c’erano le foto del bambino che cresceva, le scuole, gli amici, la fidanzata poi diventata moglie e in ultimo c’erano le foto di un uomo in divisa che come ci raccontò poi la signora, non sarebbe più tornato. “Questo è stato il mio più grande dolore”.. così la sentivamo ripetere in un sospiro poi chiudeva il libro e asciugandosi le lacrime agli angoli degli occhi lo riponeva nel solito cassetto di un’enorme credenza. Nessuno osava più fiatare sino al momento in cui la signora Corcrane riprendeva l’abituale bonomia e con una sonora risata svuotava d’un fiato il boccale di birra. Tutti alzavano i boccali in una sorta di brindisi e la serata riprendeva con l’usuale allegria. Marika si stringeva a me e mi appoggiava la testa sulla spalla ed io sentivo crescere dentro un calore e una pace che non mi sembravano reali. Il tempo scorreva inesorabile, non avevamo la consapevolezza delle giornate o delle settimane, andavo spesso al porto, soprattutto la mattina presto quando Marika ancora dormiva, uscivo. Mi sedevo sulla banchina a guardare le navi, questi mostri di metallo, in arrivo e in partenza. Una mattina sentii un tonfo fragoroso, il rumore del legno che si spezza di botto, due persone, una su un muletto da carico aveva praticamente inforcato male il bancale e lo aveva distrutto sparpagliando per il piazzale una considerevole quantità di scatolette, alcune delle quali avevano perso il loro contenuto. L’altro, probabilmente il capo, inveiva come un pazzo indicando un container poco che distante che attendeva di essere completato. Il tizio sul muletto dopo aver inveito a sua volta scese da muletto e nonostante le grida dell’altro se ne andò alzando il dito medio della mano destra come saluto. Mi avvicinai all’uomo fermo accanto al muletto che ancora no smetteva di gridare, non appena si accorse della mia presenza mi lanciò un’occhiata di fuoco e una sfilza di parole che non riuscii bene a capire. Nel mio inglese un po’ stentato gli feci intendere che avrei potuto guidare io il muletto e anche se un po’ reticente decise di fare di necessità virtù per cui in sostanza mi disse: “Ok.. Sali sul muletto e fammi vedere se sei in grado di usarlo..” Fu in pratica l’inizio della mia esperienza lavorativa irlandese e l’inizio di un’amicizia che sarebbe durata nel tempo.
I giorni e poi le settimane volarono via inesorabilmente, ci sentivamo finalmente in pace con noi stessi, ci sentivamo sull’orlo della felicità.. un solo altro passo e avremmo potuto agguantarla con la punta elle dita, era lì che ci aspettava. Il declino di Marika era lento ma inesorabile, tentava in tutti i modi di nascondermelo, ma in una tiepida notte di giugno la morte venne a riscuotere quanto dovutole. Il mattino dopo Marika la pelle di Marika era bianca come la neve, il suo corpo, al tatto, era gelido. Non ricordo per quanto tempo rimasi ad accarezzarle la fronte, non ricordo lacrime, ricordo solo il vuoto. Il nulla che mi entrò nell’anima e che non riuscii a mai a riempire.
L’ultima immagine di Marika, è strano che con gli anni poco o nulla sia cambiato, come se fossi uno spettatore di una scena di un film mi vedo ancora in quella stanza mentre le accarezzo la fronte ed ho sempre quella sensazione indefinibile di sentirmi un intruso, un qualcuno che con quella scena non ha nulla a che fare. Restai a lungo in Irlanda fino alla mattina in cui mi resi conto che non c’era più nulla che mi trattenesse e così ritornai in Italia. Il resto lo puoi facilmente intuire, ripresi gli studi interrotti e diventai quel bravo ragazzo che tutti si aspettavano che io fossi. Marika era sempre lì, ad appena un passo dal cuore, non ti voglio far credere che non ci siano mai state altre donne.. furono solo ed unicamente episodi. Questo almeno fino a ieri sera.. oggi sono.. “Oggi sei arrivato alla fine della corsa…” mi interruppe Ivonne mentre le lacrime le solcavano le guance e mi puntava una pistola che era apparsa da chissà dove. “La vita è così… non puoi farci nulla, io non posso farci nulla, ho passato i primi anni della mia vita in un orfanotrofio nell’assoluta convinzione di essere sola al mondo. Ogni tanto uno dei miei compagni se ne andava, adottato da una simpatica coppia, che l’avrebbe amato come un figlio. Questo ci diceva la suora ma spesso ritornavano, incapaci di amare, incapaci di credere che il paradiso fosse così vicino quanto volevano farci credere. Ricordo che passavo ore nella cappella dell’orfanotrofio ero convinta che quell’oscurità potesse nascondermi a tutto e a tutti, le suore al contrario pensavano che fossi sulla strada giusta per diventare una di loro. Non posso dire che mi trattarono male, il male era dentro noi era parte della nostra breve vita lo portavamo come un marchio indelebile nell’anima per questo semplice motivo nessuno di noi riusciva ancora ad amare.” Ivonne mi guarda credo stia cercando di capire le mie emozioni o per essere più preciso la totale assenza di emozioni. Io stesso non provo nulla… il vuoto è di nuovo dentro me. “Fui adottata all’età di 10 anni”, riprese a narrare, “non so spiegarti la paura che provai, il puro terrore che mi attanagliò l’anima per giorni impedendomi di mangiare e di dormire. Passavo le mie giornate nell’oscurità della chiesa chiedendo a Dio di spiegarmi perché mai dovessi essere adottata… proprio io… perché? Lui non mi rispose e quella credo fu l’ultima volta in cui parlammo. Era una splendida mattina di sole il giorno in cui i miei genitori vennero a prendermi, la mia nuova mamma mi abbracciò subito cercando di asciugarmi le lacrime che non riuscivo a trattenere, mio padre mi accarezzò una guancia e mi allungò una mano. Prese la mia mano nella sua e ci incamminammo verso l’uscita. Mi voltai una sola volta e vidi suor Enrica che si asciugava le lacrime mentre la Madre superiora le cingeva le spalle con un braccio. Abitavo in una bella casa lontana dalla città, mia madre era costantemente preoccupata di quanto mangiassi poco o dell’incarnato pallido della mia pelle. Mio padre era quasi completamente assente, partiva per lunghi viaggi e al suo ritorno mi portava sempre qualche piccolo regalo. Non frequentai mai le scuole, avevo degli insegnanti privati che venivano a casa, quando mia madre si lamentava che avrei dovuto frequentare bambini della mia età mio padre ripeteva che nella vita bisogna imparare ad essere soli e ad avere meno legami possibili. La discussione finiva lì. Mia madre morì il giorno stesso in cui compii 15 anni. Una gelida mattina d’inverno mio padre mi accompagnò all’ospedale a dare l’ultimo saluto alla mamma. Quello stesso giorno finì la mia infanzia e la mia adolescenza allo stesso tempo, non versai nemmeno una lacrima, sapevo che mio padre avrebbe fatto la stessa cosa non perché non le volessimo bene ma per il semplice motivo che entrambi sapevamo che i sentimenti fanno male, ti divorano dentro.. questa era la grande lezione che avevo imparato. Per altri tre anni la mia via continuò più o meno uguale a sempre fino al momento in cui compii 18 anni. Mio padre tornò da un viaggio più breve del solito con uno strano pacchetto. Me lo porse senza tante cerimonie, era abbastanza pesante pur essendo non molto grande. “Aprilo” disse. Lo aprii spiando le sue reazioni, tolta la carta da regalo vidi una bellissima scatola di legno lucido, la accarezzai era perfettamente liscia. Aprendola mi trovai davanti una pistola… tanto tempo dopo avrei scoperto che si trattava di una Walter PPK. Non provai paura ne tanto meno sorpresa… tutti i tasselli del mosaico erano andati al loro posto come per magia. Mio padre sorrideva. “Non mi sono sbagliato”. Ivonne tornò a scrutarmi e proseguì. “Per farla breve da quel momento non ebbi un attimo di tregua, imparai a maneggiare qualsiasi tipo di arma e le tecniche di lotta corpo a corpo… posso uccidere una persona a mani nude in almeno 7 modi diversi. Mio padre valutava e approvava i miei progressi. All’età di 23 anni ottenni il mio primo contratto che superai brillantemente per la gioia di mio padre che al mio ritorno mi abbracciò come mai aveva fatto in vita sua. Morì pochi mesi dopo spegnendosi in silenzio… come aveva vissuto, da quel momento rilevai l’attività… se così posso definirla. Mio padre era un assassino a pagamento e io lo era diventata, non abbiamo sentimenti, facciamo il nostro lavoro per chiunque lo richieda con un'unica clausola, vogliamo poter decidere se accettare o meno… vogliamo convincerci che il nostro obbiettivo meriti veramente di morire. No. No. Non fare quella faccia, non è una giustificazione e non mi sono mai voluta sostituire a Dio o a chiunque tiri le fila lassù, nemmeno voglio mettere a tacere la coscienza… io non ho una coscienza.. o meglio credevo di non averla.” Tace ora. La mano che tiene la pistola non trema, Ivonne mi guarda, aspetta una mia parola ma io non so che dire. “Ho accettato il tuo contratto senza nemmeno cercare di conoscerti e ho violato una regola fondamentale, ora ti devo uccidere, non posso violare il contratto e anche se lo facessi ci sarebbe qualcun altro pronto a portarlo a termine. Voglio che tu mi creda.. io non ho finto questa notte… io.. io… non ho mai amato nessuno, mio pare prima di morire mi disse che quando mi vide all’orfanotrofio capì immediatamente che io sarei stata la figlia che non aveva mai avuto il coraggio di mettere al mondo. Era certo che non avessi sentimenti, era sicuro che un figlio suo naturale non avrebbe mai avuto quelle doti che vedeva in me e che sentiva sue dalla nascita.” Il silenzio ci avvolse, il vuoto che avevo dentro non aveva parole, mi rendevo conto di una sola ed unica cosa… la mia vita sarebbe finita quella notte e ironia della sorte per mano dell’unica donna che avessi mai amato dopo la morte di Marika. “Fai il tuo lavoro” dissi cercando di mettere in quelle parole tutto il disprezzo che sentivo in quel momento. Gli occhi di Ivonne parvero assumere la tonalità dell’acciaio. Il primo colpo, una specie di “flop” mi raggiunse alla spalla sinistra, non ricordo altro, solo il dolore intenso come la puntura di una vespa ma amplificato almeno mille volte… svenni. Mi svegliai in un letto d’ospedale, non ricordo quanto tempo dopo, vicino a me c’era la mia segretaria… per un secondo avevo pensato fosse un’altra persona… ma chi? Credo di essermi svegliato e riaddormentato diverse volte prima di tornare completamente lucido. Venni a sapere che qualcuno aveva avvisato la mia segretaria personale di quanto era accaduto, ero stato vittima di un killer che credendomi morto se n’era andato. Per la mia incolumità la notizia doveva restare riservata il più a lungo possibile, mi avevano trovato in condizioni critiche ma non disperate.. la telefonata mi aveva salvato la vita, ero stato ricoverato in un ospedale militare e nessuno sapeva quanto era successo. Mi salvai ed è passato molto tempo da allora, sono lo stesso di sempre e non ho contato le volte in cui ho pensato che Ivonne avrebbe dovuto uccidermi e non lasciarmi qui a morire a poco a poco giorno per giorno. Seduto a bere un caffè in questa tiepida giornata di primavera penso a Ivonne… maledetta Ivonne… morì alla veneranda età di 37 anni mentre portava a termine un contratto in Costa Rica, le indagini della polizia rivelarono che subito dopo aver eliminato l’obbiettivo era rimasta coinvolta in uno scontro a fuoco con le guardie del corpo, aveva cerato di farsi largo sparando ma l’avevano uccisa senza che sparasse un solo colpo. Le pistole che le trovarono strette in mano erano senza caricatore..
Ricordo le sue parole: “… non posso violare il contratto e anche se lo facessi ci sarebbe qualcun altro pronto a portarlo a termine.”
La odio anche per questo… per avuto quel coraggio che io non troverò mai in vita mia…, il coraggio di farsi ammazzare e mentre questo ultimo pensiero mi tormenta, da una distanza indefinita, un rumore secco per un attimo mi fa trasalire: “Flop”. E’ questione di un attimo…

Loshrike [SM=g27828]

P.s. Ho unito tutto il mio racconto in un unico post.. nel tempo ha subito mutazioni e cambiamenti.. sono anche riuscito a finirlo.. vogliate perdonare un briciolo di vanità.
Keko01
00venerdì 3 marzo 2006 14:36
Sei un mito!!!!

Aspetto in formato PDF lo voglio illustrare e poi stampare......guarda che non scherzo!!!

Oppure dammi i capitoli faccio io l'impaginazione
Keko

[Modificato da Keko01 03/03/2006 14.39]

loshrike
00venerdì 3 marzo 2006 17:12
Re:

Scritto da: Keko01 03/03/2006 14.36
Sei un mito!!!!

Aspetto in formato PDF lo voglio illustrare e poi stampare......guarda che non scherzo!!!

Oppure dammi i capitoli faccio io l'impaginazione
Keko

[Modificato da Keko01 03/03/2006 14.39]




Sono sicuro che non scherzi.
Dimmi cosa devo fare per mettere in moto la cosa, sappi che sono un refrattario alla tecnologia.. e anche un pò imbranato..

Una sola condizione... ne voglio una copia.

Loshrike [SM=g27811]
Amgi
00venerdì 3 marzo 2006 22:51
L'ho incollato

.... in un file word e stampato. Così lo conservo

E' bellissmo Losh. [SM=x629186]
Keko01
00venerdì 3 marzo 2006 23:14
Re: L'ho incollato

Scritto da: Amgi 03/03/2006 22.51

.... in un file word e stampato. Così lo conservo

E' bellissmo Losh. [SM=x629186]




I miei quadri no che non li conservi veroooooooooo??

Solo i raccontini del caro Losh veroooooooooooooo??

Sono gelosooooo!!!!! vado a dirlo al Cane...... [SM=x629189]


keko [SM=x629190]
loshrike
00sabato 4 marzo 2006 13:34
Re: L'ho incollato

Scritto da: Amgi 03/03/2006 22.51

.... in un file word e stampato. Così lo conservo

E' bellissmo Losh. [SM=x629186]



Quale migliore soddisfazione per un povero imbrattacarte che l'affetto di una dolce donzella dal cuore sensibile..
Sentitamente grazie.

Losh [SM=x629150]

[Modificato da loshrike 04/03/2006 13.37]

loshrike
00sabato 4 marzo 2006 13:36
Re: Re: L'ho incollato

Scritto da: Keko01 03/03/2006 23.14



I miei quadri no che non li conservi veroooooooooo??

Solo i raccontini del caro Losh veroooooooooooooo??

Sono gelosooooo!!!!! vado a dirlo al Cane...... [SM=x629189]


keko [SM=x629190]



Su.. su.. su.. Keko.. non fare così.. sono certo che la fanciulla voleva farti ingelosire.. non le presti le dovute attenzioni..

Losh [SM=x629225]
erikaluna
00martedì 21 marzo 2006 15:13
...
ho letto oggi il messaggio.
si troppo troppo tempo.
però ne avrò quanto basta per leggere questo racconto...
e siccome è passato troppo troppo tempo....non vedo l'ora di gustarlo...
Un abbraccio a presto
erika
erikaluna
00martedì 21 marzo 2006 15:29
...
e quindi non ho resistito....
Ultimamente ho riflettuto molto sulla difficoltà di essere attori.
Non parlo di attori qualunque...ma quelli grandi e grandiosi.
credo che come ogni lavoro fatto bene porti allo sfinimento.
Ma l'attore si trasforma continuamente...esce e entra da vite catalogate o meno tante troppe volte, e lo fa sulla sua pelle, una fatica interiore immane...
credo che questo mio pensiero si lega benissimo ad Ivonne...
In tanti anni di scrittura non mi era mai successo di scrivere più di 30 racconti con la stessa protagonista...ma al contrario di illustri nomi contemporanei come camilleri e montalbàn non ho mai trovato l'espediente per farla uscire, per farla finire.
Forse anzi gli ho dato quella fine che per lei non poteva che essere la peggiore: il silenzio.
Si, con ivonne è terminata la mia scrittura, il mio scrivere...
Al tempo stesso sono molto contenta di questo tuo racconto, per diversi motivi.
prima di tutto per motivi puramente letterari. Pur non essendo una critica letteraria noto con piacere come hai saputo dare maggiore "visibilità" alla storia, arricchendola di dettagli per niente superflui....
Inoltre in qualche modo marika era diventato un mio racconto, e vedere adesso che ivonne è un tuo racconto mi riempie di piacere...
Tuttosommato credo che lei, ivonne, quella mia, sarebbe stata felice di una fine del genere. Sono troppo cinica forse a pensare che era una killer semplicemente per il gusto di esserlo, senza tanti retaggi psicologici, ma sicuramente le auguro prima dei 37 anni e di morire in costa rica di farsi quel viaggio a cuba che sta sognando.

E' buffo sai, proprio oggi ho finito di salvare le foto del blog di ivonne...a giorni lo cancellerò.

Si, sono coincidenze.
Ma ci sono molte cose in questo racconto, molti pensieri, molte sensazioni, che vanno al di là della stima per ricoprirsi di affetto.

Scrittura visionaria. Sarà per quello che ci vedo un bellissimo corto alla tarantino...si, con tutte le regole della sceneggiatura infrante ... ellissi, flashback, e una pallottola, poco più in basso della spalla sinistra.

Bello.
E grazie Losh.
Erika
Ahamiah
00mercoledì 12 aprile 2006 09:23
Ho letto stamattina, complimenti è proprio un bel racconto
[SM=x629188]
loshrike
00venerdì 14 aprile 2006 10:25
Tuttosommato credo che lei, ivonne, quella mia, sarebbe stata felice di una fine del genere. Sono troppo cinica forse a pensare che era una killer semplicemente per il gusto di esserlo, senza tanti retaggi psicologici, ma sicuramente le auguro prima dei 37 anni e di morire in costa rica di farsi quel viaggio a cuba che sta sognando.

Sinceramente ho pensato a lungo a Cuba come possibile fine ma come tu stessa hai scritto Cuba è piuttosto una meta da raggiungere.. dunque un inizio e non una possibile fine. Il cinismo si addice più a me che a te per cui nemmeno io credo che Ivonne fosse quello che è solo per il semplice fatto che le piacesse il suo lavoro. Non volevo troppo approfondire l'aspetto psicologico.. non in questo racconto... magari in un libro tutto potrebbe essere molto più chiaro.
Sono sicuro che il viaggio lo farà.. non importa se sola o in compagnia.. sicuramente anche accompagnata sarebbe comunque sola nel sapere il motivo e i risvolti umani e psicologici che l'hanno portata a Cuba.



E' buffo sai, proprio oggi ho finito di salvare le foto del blog di ivonne...a giorni lo cancellerò.

Non è buffo.. semplicemente è destino.. quasi come una cicatrice sulla pelle che uno si ritrova dalla nascita.. è impossibile cancellarla..

Si, sono coincidenze.
Ma ci sono molte cose in questo racconto, molti pensieri, molte sensazioni, che vanno al di là della stima per ricoprirsi di affetto.


Ci sono coincidenze ma anche molto di più... come tu stessa hai scritto.. io ci vedo ciò che è stato o avrebbe potuto esserci... sicuramente hai capito.. non aggiungo altro.

Scrittura visionaria. Sarà per quello che ci vedo un bellissimo corto alla tarantino...si, con tutte le regole della sceneggiatura infrante ... ellissi, flashback, e una pallottola, poco più in basso della spalla sinistra.

La regista sei tu... io ho semplicemente scritto una possibile trama... ed è molto poco..


Una canzone di Vasco dice: ..Perchè la vita è un brivido che vola via, è tutto un equilibrio sopra la follia..

Loshrike
loshrike
00venerdì 14 aprile 2006 10:27
Re:

Scritto da: Ahamiah 12/04/2006 9.23
Ho letto stamattina, complimenti è proprio un bel racconto
[SM=x629188]



Grazie mille.. soprattutto per la pazienza dimostrata.. i complimenti fanno sempre piacere.

losh
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