Buona Fortuna.

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00martedì 13 marzo 2007 17:00
A Johana .

Quella mattina mi alzai presto e, insieme ai miei genitori, andai a fare colazione. Indossavo una maglietta comprata in un negozietto locale, un costume celeste a fiori e dei sandali con la suola di gomma consumata. Faceva molto caldo, la luce del sole si rifletteva sui vetri trasparenti del ristorante in modo debole e soffuso, illuminando tutto quello che c'era intorno mentre l'acqua cristallina permetteva di osservare i pesci che vagavano senza meta, come alla ricerca di qualcosa che non esiste. Incominciai a girare tra il buffet ricco di pietanze francesi e locali mentre, ad un tratto, vidi entrare una ragazza. Indossava una maglietta rossa, anch'essa comprata in uno dei tanti negozietti che invadevano il deserto, una gonna bianca e dei sandali da mare. I suoi lunghi capelli castani e lisci erano legati con un elastico nero e i suoi occhi verdi riflettevano ancora lo stato di convalescenza della notte passata. Lei si incamminò verso di me e, con un movimento delle labbra, mi fece un sorriso passandomi d'avanti. Il mio cuore si fermò: non riuscivo più a muovermi, ne a dire una parola. Rimasi completamente paralizzato. Non avevo mai avuto molta fortuna con le ragazze, forse a causa del mio carattere timido. Stupito ma allo stesso tempo emozionato mi diressi al tavolo dove i miei genitori mi aspettavano abbastanza infastiditi per il mio ritardo. Da quel momento la mia vita cambiò radicalmente. E' incredibile come una piccola cosa possa rivoluzionare completamente le tue emozioni, i tuoi pensieri, il tuo stato d'animo. Eppure quella momentanea felicità mi portò anche un brivido di tristezza e malinconia perché, nel profondo del mio cuore, sapevo che forse non avrei mai più rivisto quella ragazza e questo mi fece stare male. Era la prima volta che mi innamoravo veramente di una persona. Quella stessa mattina partimmo per un’escursione su una delle isole più belle del Mar Rosso, Mahmya. Eravamo circa cinquanta partecipanti e ci dividemmo in cinque gruppi, ognuno su barche diverse. Lì conobbi tre bambini italiani, Matteo, Adriano e Agnese. Entrammo nella cabina della barca e aspettammo che tutti si fossero imbarcati per poi partire. L’interno della cabina era tutto in legno: c’erano due file di divanetti a forma semicircolare con dei cuscini blu decorati con ancore d’oro mentre le scale, situate di fronte ai divanetti, portavano verso la cucina e i bagni. Mentre giocavamo, la porta della cabina si aprì ed entrò una ragazza, la stessa che incontrai al ristorante qualche ora prima. Quando la vidi il mio cuore si fermò di nuovo ma in quel momento sapevo di dover reagire. Non potevo restare fermo come prima così continuai a giocare con loro, sforzandomi di non pensare a lei e di non guardarla. Ma non ci riuscivo, era più forte di me. Lei si era stesa su una poltroncina, con un grosso libro in mano e degli occhiali neri. Leggeva con aria spensierata, come se fosse estranea al mondo e a quello che succedeva intorno a lei. Ogni tanto alzava la testa, i nostri sguardi si incrociavano per un momento e poi si distaccavano di nuovo come due calamite attratte dagli stessi poli. Quell’ora e mezza di navigazione passò in fretta. Guardarla leggere era bellissimo, addirittura rilassante. Ero molto curioso di sapere cosa pensasse e quali sentimenti provasse in quel momento. E’ difficile esprimere con parole quello che provavo per lei, forse perché è la prima volta che provo a descrivere i miei sentimenti per una ragazza. Arrivati sull’isola andammo subito a posare le borse sotto gli ombrelloni costruiti con foglie di palma e, come da programma, andammo a esplorare i fondali marini. Di mattina l’acqua era gelata e così decisi di tornare sotto l’ombrellone, abbracciato dal caldo sole egiziano. Pochi minuti dopo la vidi arrivare da lontano insieme a sua madre, feci finta di niente e chiusi subito gli occhi. Dopo qualche minuto la vidi davanti a me, sotto l’ombrellone, che leggeva tranquilla il suo bel libro, sempre con la sua solita aria spensierata. Annoiato, decisi di cercare nella sabbia che mi circondava piccoli tronchetti di corallo. Così incominciai a scavare, a scrutare con attenzione ogni granello di sabbia finchè, ad un certo punto, trovai un paguro. Incominciai a giocare con lui, facendolo camminare sul mio asciugamano. Non so esattamente come, ma in qualche modo attirai la sua attenzione. Così incominciammo a guardarci a vicenda, ridendo per quel buffo animaletto che cercava disperatamente una via d’uscita. Lei si alzò di scatto, si diresse verso la sua borsa e prese la macchina fotografica. Si avvicinò, mi guardò negli occhi e con un aria indecisa mi chiese:”Posso fare una foto”. Il mio cuore non si fermò come le altre volte ma provò un’immensa dolcezza e tenerezza per quella ragazza e soprattutto per come me lo aveva chiesto, con quel misto di accento francese e italiano. Io rimasi lì steso per circa tre secondi, poi la guardai e le dissi:”Si, si vai”. Lei scattò la foto, poi mi disse:“Grazie” e con un accenno di imbarazzo se ne andò. In quel momento mi innamorai sempre più di lei. In quel momento pensai a Platone e alla sua concezione di bellezza. Per me la bellezza non è una semplice idea, è lei. La vidi tornare sotto l’ombrellone, si stese sulla sabbia e si girò a riguardare il paguro. Continuammo a ridere finchè, ad un certo punto, decisi di lasciarlo andare via. Ci guardammo per un’ultima volta e poi, con un tenero sorriso, ci girammo di nuovo. Io continuai ad osservare il paguro mentre si allontanava tutto impaurito e, in quel momento, immaginavo cosa sarebbe successo se al suo posto ci fosse stata lei. Sicuramente non l’avrei lasciata andare via. Il tempo trascorse velocemente tra una nuotata e una partita a pallavolo così un’ora prima di ripartire andammo a pranzare. Ci sedemmo al tavolo dove si trovava una famiglia di italiani che avevamo conosciuto in aeroporto prima di partire dall’Italia e, in quello stesso tavolo, si trovava anche lei con sua madre. Pranzai molto velocemente e mentre i miei parlavano, io passai tutto il tempo a guardarla. Lei si accorse che mi ero seduto al suo stesso tavolo, eppure non si girò verso di me nemmeno una volta. Ma non mi importava. Guardarla mi faceva sentire bene, mi faceva sentire vivo, come non mi ero mai sentito prima. Dopo cinque minuti venne a chiamarci Mohammed, il nostro accompagnatore, per avvertirci che la nave sarebbe partita tra quindici minuti. Mettemmo apposto tutte le nostre cose, asciugamani, attrezzatura, e ci dirigemmo verso la barca. Avanti a noi c’era un altro gruppo che stava per partire e un marinaio disse che a bordo erano disponibili altri due posti. La madre della ragazza si piombò sulla barca e, ad un certo punto, sentii lei che le disse, quasi urlando:”No”. Si girò verso di me, ci guardammo negli occhi e le feci un sorriso di conforto, poi la vidi salire sulla barca. La guardai partire per oltre dieci minuti finchè non divenne un puntino lontano sull’orizzonte. A differenza della partenza, quell’ora e mezza di navigazione sembrava non passare mai. In quel momento non avevo voglia di fare niente così mi chiusi nella cabina e cominciai ad ascoltare una canzone, sempre la stessa, l’unica che riusciva a farmi sentire male. Mi stesi e chiusi gli occhi: mi sembrava di essere tornato bambino, cullato dalle onde che muovevano dolcemente la barca. Ci misi poco ad addormentarmi. Mi risvegliai qualche minuto prima che approdassimo, mi girai e vidi che non c’era nessuno nella cabina. In quel momento avrei voluto risvegliarmi e vederla vicino a me, ma sapevo che non sarebbe mai successo. Prendemmo tutte le nostre cose e uscimmo dalla barca. Dopo qualche metro arrivammo ai pullman che ci riportarono al villaggio. Entrammo in un pulmino più piccolo perché mia madre disse che avremmo trovato meno aria condizionata mentre la ragazza entrò in quello più grande. Nonostante tutto riuscii a non pensare a lei e fissai la mia attenzione al paesaggio che mi circondava. Quel luogo era stato costruito dal nulla perché anticamente era tutto deserto mentre ora sorgono case, villette a schiera, alberghi, casinò, ospedali, negozi. Quello che mi colpì di più furono le strade: ampie strisce di asfalto circondate da palme e piccole dune. Il cielo era pulito, privo di qualsiasi nuvola. Il caldo sole egiziano si batteva senza pietà sull’asfalto, rendendolo molto caldo. Anche nel pulmino si sentiva molto la sua presenza. Faceva così caldo che nemmeno l’aria condizionata riusciva ad alleviare il suo calore. Arrivammo subito al villaggio, prendemmo i nostri zaini e andammo in piscina. Il caldo a mezzogiorno era insopportabile, soprattutto perché non soffiava nemmeno un po’ di vento. Mi tuffai in piscina, stremato, e restai in acqua per un’ora intera. Da quel momento non la vidi più per tutta la giornata. I giorni successivi passarono in fretta e li trascorsi tutti in piscina perché quello era l’unico posto dove riuscivo sempre a incontrarla. Da quando mi chiese di fotografare il paguro in spiaggia, non ci parlammo più. In piscina facevamo finta di fare altro, ma in realtà ci guardavamo a vicenda. Onestamente cercavo disperatamente di capire cosa provasse per me e a volte divenne il mio pensiero fisso. Mi osservava ogni due minuti con sguardo furtivo, come se mi volesse guardare ma allo stesso tempo provasse vergogna a farlo. Io facevo lo stesso, ma la guardavo e basta, senza vergognarmi e probabilmente era proprio questo che la spiazzava. Nella vita non servono tante parole per esprimere un sentimento. A volte basta uno sguardo. Lei entrò in piscina e anche lì continuò a guardarmi. Allora decisi di entrare anch’io, ma senza dimostrare che l’avevo fatto solo per la sua presenza. Per fortuna vidi Adriano e Agnese che giocavano in piscina, così mi unii a loro. Ormai ero diventato una specie di fratello maggiore acquisito. Feci finta di prendere la palla che intanto era volata quasi vicino a lei, andai a prenderla e mi avvicinai a lei. La guardai negli occhi e le feci un sorriso. Dio, quanto era bella. La guardai e le feci un sorriso ma lei, impassibile, mi guardò e si allontanò da me, accarezzando i suoi lunghi capelli bagnati e strofinando i suoi occhi, che in acqua sembravano ancora più verdi. In quel momento il mondo mi crollò addosso. La mia testa piena di dubbi, di domande, di paura stava per scoppiare. La guardai mentre si allontanava, lanciai la palla ai bambini e uscii di fretta dalla piscina, mi diressi verso la doccia e mi gettai sotto l’acqua gelata. Ero così teso e pieno di rabbia che in quel momento non so cosa avrei fatto. Mentre facevo tutto questo, lei era lì, tutta bella e tranquilla, che mi fissava con i suoi bei occhioni verdi. Non ci sono parole per descrivere la mia delusione in quel momento. Mi diressi verso l’ombrellone, presi la mia maglietta, la guardai per l’ultima volta e andai in giro per tutto il villaggio sfogandomi nell’unico modo possibile: la musica. In quei momenti lei era l’unica cosa che mi schiariva le idee, mi permetteva di essere in qualche modo più razionale. Quando iniziai a scrivere questo libro ero pieno di idee, di sentimenti, anche di nostalgia. Le parole mi venivano dal cuore, le mani si muovevano da sole mentre io ero da tutt'altra parte con la mente. Ora più vado avanti e più provo difficoltànel descrivere i miei sentimenti. A volte mi accusavo da solo, dicevo che il problema non era lei, ma io. Com’è possibile che un ragazzo di sedici anni sia così incapace di relazionarsi con le ragazze? A questo punto non mi andava di incolpare nemmeno la mia timidezza, perché non era quello il mio problema primario. Io ero innamorato, ma a questo punto pensavo di non conoscere minimamente il significato di quella parola. Magari non avevo mai avuto un vero interesse per una ragazza prima d’ora e siccome di lei mi piaceva tutto, ci ero caduto. Come mi disse un mio amico, a volte la vita ti porta ad un bivio e io scelsi un vicolo cieco. In quel momento capii la vera differenza tra l’uomo e la scimmia. L’uomo si distingue non per l’aspetto fisico, ma per il fatto che, in quel vicolo cieco, sa girarsi e tornare indietro, seppur ferito, e non sedersi li e piangere. Dopotutto cosa mi potevo aspettare? Che siccome l’avessi vista una volta e mi avesse sorriso per un secondo, fossimo già insieme? La vita non va così. Benvenuto nel mondo reale.
E’ passato un anno da quando ho cominciato a scrivere questo libro. Il finale credo che non lo racconterò. Forse un giorno. Un giorno lontano. Vi anticipo solo che per quella ragazza ho pianto, ho pianto come non avevo fatto da parecchi anni. Una persona, non ricordo chi, mi aveva detto che quando un uomo piange, vuol dire che sta veramente male. E io sono stato male. Quando sono tornato da quel luogo ormai lontano dal mio cuore, ho vissuto malissimo gli ultimi mesi scolastici. I professori mi volevano bocciare, i rapporti con i compagni di classe stavano degenerando e io ero sempre più convinto di voler cambiare scuola. Non mi piacciono le scuole private, troppi figli di papà. E sapete cosa odio dei figli di papà? Tutto. Per non parlare dei preti. Non sono mai stato un grande cattolico, anzi a dire la verità non me ne frega proprio di Gesù. Per due semplici motivi: non credo in Dio, per come la penso io non è mai esistito. Mi ritengo ateo. Due anni fa andai in Thailandia e da quel momento mi resi conto che la mia religione è il Buddismo. Tutta un’altra mentalità, tutto un altro modo di vedere la vita. Ora vi starete chiedendo qual è il secondo motivo. Ebbene, mia madre mi ha sempre detto che i veri preti non sono quelli che prendono i voti e se ne stanno belli tranquilli qui in Italia. I veri preti sono quelli che lasciano l’Italia per dedicarsi ai popoli del Terzo Mondo. Sarà una coincidenza, ma io sono stato battezzato proprio da uno di questi preti. In questo momento mi viene da ridere, perché mi tornano in mente le parole di mio padre. “Leggi, devi leggere, non stare sempre davanti a quel computer! Io mi ricordo che quando avevo la tua età leggevo un libro alla settimana! Ecco perchè poi fai sempre uno schifo i compiti in classe di italiano”. E io puntualmente rispondevo sempre nello stesso modo, per evitare di dire altro. “I tempi sono cambiati…”. Ed è vero, i tempi sono proprio cambiati. E insieme al tempo, anche la mia vita. Quando ho cominciato a scrivere questo racconto, avevo promesso a me stesso che un giorno l’avrei fatto leggere a Lei. Oggi ho capito una cosa. Non promettere mai. Pensando alla scuola, mi ricordo di aver visto attaccato al muro una sorta di concorso di racconti e poesie, oggi pomeriggio vado a vedere meglio, magari invio questo racconto, così, per gioco, tanto non me n’è mai fregato nulla di vincere, magari qualcuno non ha niente da fare che leggere il mio stupido racconto.
E anche questo capitolo della mia vita si è concluso, in modo non proprio felice, ma si è concluso. Vorrei terminare con la frase di una persona che ritengo molto importante nella mia vita. Uno dei pochi amici che mi ha insegnato i veri valori della vita. Mirko. Magari un giorno gli parlerò di quest’ultima parte.

Non c'è niente di più bello della nostalgia. I ricordi e tutto ciò che è stato. Un senso di amarezza e di tristezza che pervade tutto il corpo, quasi come una sensazione di freddezza.
Non ti rimane che stringerti, rannicchiandoti sotto le coperte, cercando quel tepore mattutino che ti conforta e che ti rasserena. Come una carezza.

Ciao Johana, buona fortuna.


Commenti e suggerimenti sempre ben accetti.
chicom
00martedì 13 marzo 2007 22:36

racconto ke scorre molto bene, storia interessante e abbastanza avvincente

nota di merito per come riesci a descrivere con poke ma scelte parole l'ambiente e le situazioni ke vi si svolgono

compliments

[SM=g27811]

loshrike
00giovedì 29 marzo 2007 14:19
Il racconto è interessante e ben scritto.. se posso fare un appunto ti direi di eliminare: "quella mattina".. l'ho usato io stesso in passato e anche a me fecero notare quanto stonasse come incipit del racconto.
Parere personale non vincolante:

Losh [SM=g27816]
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