Stabilis

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Niceforo Cesare
00martedì 28 marzo 2006 23:18
un "raccontino" di 12 pagine [SM=g27828]

sarebbe simpatico da parte di chi sopravvivesse a questo racconto, fare qualche commento [SM=g27828]

Nella scura ma accogliente sagrestia duomo della città di Fano, i leggeri, rapidi, passi dei topi fan da accompagnano un vorace masticare, periodicamente scandito dal cozzare del cucchiaio e della scodella, in una sinfonia chiusa infine da un sonoro rutto.
Pochi minuti e la neonata quiete è infranta da un ticchettio di passi decisi, provenienti dall’interno della chiesa.
È il vecchio sagrestano, dal brutto viso non reso certo più attraente dalle tante rughe che lo scolpiscono, e dalle folte basette canute ed incolte; che attraversato il corto corridoio si china su di un robusto giovane seduto sul terreno e con la schiena al muro, vestito di un abito ricco, ma pezzato di sangue e scolorito dall’incuria e dal maltempo.
Raccoglie la ciotola di legno, svuotata della zuppa fino all’ultima goccia, e il cucchiaio, di legno anch’esso, e si siede davanti al ragazzo, silenzioso.
Potrebbe avere una trentina d’anni, quasi sicuramente qualcuno di meno, ha gli occhi chiusi, come stesse riposando, e il suo viso è contratto in una smorfia divertita.
“Quanta gente c’è là fuori?” chiede.
“Saranno una quindicina. Contando anche le donne saranno...boh, non lo so, più di venti. Ma perché sono tutti qui a cercarti?” La voce del sagrestano è quella la rauca voce di un anziano. “alcuni mi chiedono dove sia Stabile, altri afferman di cercare un certo Onofrio. Altri ancora gridano ‘quel bastardo!’...Qual è il tuo vero nome tra quei due?”
Il giovane apre gli occhi e alza la testa.
“In un certo senso, entrambi. Ma più correttamente parlando, sono stato fatto cristiano come Stabile.”
“cosa intendi con entrambi?”
“Che hai davanti a te sia il nobile cavalier Onofrio di Steccoammonticchiato all’Arzilla marchese di Potentino, che il contadino Stabile, braccia rubate alla guerra per esser date alla terra, come diceva mia madre.”
“Cavaliere in disgrazia, o contadino armato cavaliere?”
“Diciamo pure un contadino che nella disgrazia si è tuffato di sua spontanea volontà. È una storia lunga, in effetti.”
“Beh, c’è ancora molto tempo prima che la Gina ci porti un’altra ciotola di zuppa...”
“Ricordati che lo hai voluto tu, non io! Non saprei dirti di preciso che giorno fosse, ma è tutto cominciato a Fossombrone, un pò di tempo fa, e un pò di miglia in mezzo ai colli. Lavoravo dalla nascita per l’abbazia locale, dedicata a non so quale santo, come contadino-taglialegna-guardapolli, unico uomo ancora vivo della mia famiglia...beh, ti dicevo,stavo portando le pecore al pascolo che mi si avvicina un cavaliere, ferito e sanguinante. Il quadrello di un brigante gli aveva trapassato la corazza, ed era lì lì per spirare. Mi cadde davanti agli occhi, e ricordo che si mise a parlare, ma non saprei dirti nulla di quello che mi disse. Ero troppo occupato ad ammirare la sua spada, la sua cotta, quella specie di casacca col suo elegante stemma, di draghi e di leoni, se non ricordo male...e il suo cavallo. Dio sa che non sono un intenditore di cavalli, e che n’avrò visti poco più di dieci in vita mia, ma quella bestia là! Avrebbe seguito il suo padrone fino all’inferno, col suo manto grigio come la nebbia d’inverno e il suo portamento, fiero, degno di lui nobile stallone! Stavo giusto facendo queste considerazioni che il cavaliere mi strattonò la giacca, chiedendomi se lo stavo ascoltando. Bofonchiai svelto un ‘si, certo ’ prima che mi dicesse ‘addio, ora sai cosa fare ’ ”
Il sagrestano, curioso, interrompe.
“furon queste le sue ultime parole? Cosa hai fatto dopo?”
“Lasciami finire. Ti stavo dicendo, ero lì, con questo cavaliere morto tra le mani...di cui dovevo sbarazzarmi il prima possibile!”
“perché?”
“Nessuno, e ripeto, nessuno, crederà mai ad un contadino quando dice di non esser stato lui ad ammazzare un cavaliere morto di morte violenta...non so come funzioni qua in città, ma in campagna è così.”
“E quindi cos’hai fatto?”
“Ho onorato il cavaliere con una cristiana sepoltura...” Stabile sorride fingendosi pio “E poi cosa volevi che facessi? Ho preso il cavallo, le armi e la cotta e me ne sono venuto a fano, dall’unica persona che potesse salvarmi...”
“chi?”
“Hilario.”
“Hilario?”
“Un ex-servo del mio monastero, figlio di un soldato veneziano e di una contadina, che è riuscito a comprarsi la libertà sgattaiolando farina fuori del monastero a dei banditi, senza che nessuno, per un caso fin troppo fortuito, se ne sia mai accorto”
“Non l’ho mai sentito nominare.”
“Vive sepolto dai propri detriti, e la sua casa è come un vecchio magazzino dimenticato, pervaso da un puzzo sudato e stantio, e punteggiata di attrezzi da scultore, sarto, maniscalco e pittore...ricordo che lasciò sull’icona che stava dipingendo una bella striscia di rosso quando mi vide piombargli in casa, senza preavviso, come il fantasma, sovraccarico e sovraeccitato, di un passato ormai rimosso.”
“Ma cosa fa questo Hilario per vivere?”
“Tecnicamente dipinge, scolpisce o lavora il ferro...ma in realtà vive di furtarelli: una pagnotta qui, un’oliva là...e quando capita un bel soldo d’oro. Lui non vive per vivere. Lui vive per creare.
E così, quando vide i due sacchi con la cotta, le armi e soprattutto il cavallo, il suo primo commento fu ‘chiunque tu abbia ucciso, aveva un pessimo senso del gusto ’.”
“Persona interessante...” Sorride il sagrestano.
“Più che interessante, stramba...col suo fisico pallido e mingherlino, e quello sguardo di folle curiosità, sembra più uscito dai sermoni che fanno i preti sull’inferno, che dal mondo vero. Fatto sta che quando gli spiegai il mio piano, gli s’illuminarono gli occhi. Corse a prendere i pennelli, mi diede un secchio per dell’acqua, un soldo per del pane e si chiuse in casa sua, a fare schizzi su della pergamena di seconda mano prima, a dedicarsi al suo capolavoro poi.”
“Di quale piano stai parlando?”
“Semplicemente, morto un cavaliere se ne fa un altro.”
“non capisco” il sagrestano è confuso, e si gratta i radi capelli che ha sul collo, mentre Stabile racconta e descrive ad ampi gesti la sua storia.
“Volevo diventare un cavaliere, se non per diritto di nascita, almeno per diritto di fortuna.”
“Ma è illegale!Solo un cavaliere può fare cavaliere un servo. E nemmeno sempre, se ci pensi.”
“Non è illegale se nessuno lo sa. E il cavaliere stesso potrebbe avermi fatto tale con le sue ultime parole no?”
“Non penso proprio. Ma va avanti.” Il vecchio è più divertito che preoccupato e ridacchia.
“Come prima cosa, un cavaliere ha bisogno di armi, armatura e cavallo. E questi mi son piovuti, per così dire, dal cielo. Poi c’era bisogno di uno stemma, di qualcosa che mi differenziasse da quel povero diavolo mortomi in mano, che non gridasse a tutti ‘omicida’. E poi, altrettanto importante, c’era bisogno di un titolo. E anche questo venne da se. Dopo ore e ore di appunti, revisioni, e infine di pittura, Hilario finì lo scudo. Una meraviglia. Campo giallo, con una fascia scarlatta a forma di V capovolta a dividerlo in terzi, ciascuno raffigurante un’animale: quello in alto a sinistra un’aquila, quello in alto a destra un leone, e in quello in basso, il più grosso, la testa di un feroce cinghiale. In 5 giorni ebbe il tempo di dipingerlo perfettamente, di trovare una scolorita casacca di lana e di colorarla con quello che ormai era il simbolo della mia famiglia.”
“e tu cos’hai fatto in quei 5 giorni?”
“ho semplicemente fatto un pò di pratica con il cavallo. È più difficile del cavalcare i muli, se non ci sei abituato. Comunque sia, nonostante la mia eccitazione e nonostante tutte le cure artistiche, mancava ancora una cosa.”
“il nome?”
“esattamente. Ci guardammo per un pò, o meglio, mi guardò per un pò. Finché non se ne uscì con la parola Onofrio. ‘Che nome di merda!’ gli risposi, ma lui, ancora assorto in quel raptus artistico, mi disse semplicemente che di sterco suonava meglio per un nome. Ecco! Onofrio di Stercoammonticchiato!. Anzi! Steccoammonticchiato era perfetto per presentarsi a qualcuno di importante un prete o meglio, una donna. Stupito e divertito aggiunsi al nome la clausola ‘al metauro ’, che fu subito cambiata in ‘all’Arzilla’ dopo aver riflettuto sul fatto che il nostro bel fiume era fin troppo famoso, e decidemmo di metterci anche ‘marchese di Potentino’, tanto per gradire. E fu così che nacqui cavaliere, Onofrio di Steccoammonticchiato sull’Arzilla, marchese di Potentino.”
Il sagrestano si mise a ridere sguaiatamente. “Quindi” riesce ad esclamare tra una risata e l’altra “quelli che la fuori ti chiamano stronzo non sbaglian poi di così tanto...”
Stabile\Onofrio ride a sua volta, come se quella folla fuori della chiesa non volesse la sua condanna. “è vero, è vero! Ma se ti chiedono qualcosa su Steccoammonticchiato all’arzilla e su Potentino...beh, dì che sono stati distrutti dai pesaresi in qualche guerra, qualche decennio fa. Funziona sempre, non so perché. Ma tornando a noi, ora che avevo un nome, un cavallo ed uno stemma, mi mancavano altre tre cose per fare di me un perfetto cavaliere...”
“Un bell’aspetto?” il rapporto che si sta instaurando con Stabile permette al sagrestano di fare lanciare ogni tanto qualche frecciata.
“No. Mi mancavano almeno un servo ed almeno un castello. Io e Hilario ragionammo sul da farsi per un’intera serata,scartando idee più o meno valide e giungendo all’ovvia conclusione che un castello era impossibile da conquistare per due sole persone, tantomeno da costruire. Ci volle qualche altra ora per capire che comprarlo non era un’opzione considerabile, nemmeno sgattaiolando farina per una vita intera. Se proprio volevamo un castello, ce lo saremmo dovuti conquistare con il favore di un nobile, o, ancora meglio, di una delle sue figlie. E questa è la terza cosa. Mi mancava una dama.”
“Ma come possono, un rustico villico ed un artista pazzoide conquistare il cuore di una nobildonna?”
“Con un pò di fortuna, un patrono generoso in terra e qualcuno d’influente in cielo, si può fare di tutto. Peccato che qualcosa, alla fine, sia andato storto.”
“Spiegati meglio...”
“Ci sono queste due famiglie a Fano, no? I del Cassero, per quest’anno alla reggenza, e i del Carignano, che infrattati tra i colli aspettano di balzare sul seggio potestale dell’anno prossimo. Ogni famiglia ha le sue bande, che sono pagate per spazzare via dal borgo e dalla campagna le marmaglie del rivale...”
Il vecchio alza una manica mostrando a Stabile una vecchia cicatrice sull’avambraccio.
“Diavolo se lo so bene, ragazzo!Quei bastardi dei Del Carignano..”
“Non potendo correre il rischio di farci troppo notare in città – prosegue Stabile come se il sagrestano non avesse detto una parola- Decidemmo di prendere la strada verso nord e di andarcene a Carignano dagli omonimi baroni per infilarci di nascosto in un banchetto, e magari farci un nome.”
“Perché parli al plurare? Hilario ti ha seguito nell’impresa?”
“Ci puoi scommettere! E mi ha anche salvato un paio di volte il culo. Ma prima volli cambiargli il nome. ‘Gregorio’ gli dissi ‘ da oggi ti chiami Gregorio e sarai il mio fedele scudiero!’ non batté ciglio, se non per lamentarsi del suo nuovo nome. ‘perché devo essere Gregorio?’ mi chiese, annodando un borsone di pelle in cui teneva la sua poca roba. ‘Piuttosto, perché io devo essere il barone di Stercoammonticchiato?’ gli risposi, abbozzando una risata e calzando la casacca. ‘touchè’ mi disse, e preso il suo ronzino da non so quale ridotto, lo tirò fuori per le briglie intimandomi di fare presto.”
“Ma alla fine quindi?”
“Alla fine raggiungemmo il Castello dei Del Carignano, era un giovedì, giorno notoriamente dedicato, insieme al lunedì, al martedì, al mercoledì e al venerdì, al festeggiamento di non so quale occasione cavalleresca. Com’è facile immaginare il luogo era pieno di abituees, in fila con le loro dame davanti all’entrata, in attesa di essere annunciati da quell’ometto calvo, grassoccio e ben vestito che ricopriva la funzione dell’araldo. Prima di noi entrarono il signore di Malatesta, il duca di Marzocca sul Cesano, il conestabile Arnolfo di San Costanzo e la sua dama, contessa della Cerasa, Lucrezia, duchessa dell’omonimo paesino, accompagnata dal nobile sposo Giovanni di Schieppe d’Orciano...un festival di nomi bizzarri e altisonanti, vestiti eleganti e serici strascichi di dame, potenti fanfare d’ottoni e delicate melodie di liuti. Né io né Hilario avevamo mai visto nulla di tanto magnifico, poi, quanto il salone addobbato per la festa, dal soffitto stellato di bandiere e gagliardetti e la tavola apparecchiata per qualche centinaio di persone.
Non c’eravamo ancora arrivati, però, che la nostra trascendenza in quel meraviglioso sogno venne bloccata dall’omino calvo e grassoccio di cui sopra. Ci vide e prese fiato chiedendoci senza una pausa tra una parola e un’altra, chi è che avesse il piacere di annunciare. Mi gonfiai di finta vanagloria nello scandire il mio nuovo, pomposo nome ‘Non basta solo il viso per farle riconoscere che ha davanti Onofrio di Steccoammonticchiato sull’arzilla, marchese di Potentino?’ mi sembrava impossibile, a quel punto, che mi lasciassero fuori dal castello. ‘nonènellalistapurtroppoarrivederciegrazie. Prossimo!’ Tentai di richiamare l’attenzione di alcuni dei cavalieri che stavano camminando lungo il corridoio con le loro dame, ma nessuno di loro rispose. Forse perché avevo sbagliato i nomi. O forse perché non volevano voltarsi indietro e vedere di nuovo quell’omino calvo e grassoccio...
L’araldo continuava ad urlare ‘Prossimo!Prossimo!’ che ad Hilario venne l’idea che ci avrebbe fatti entrare. A dire il vero era strano che non ci avessimo pensato prima. Gli si avvicinò circospetto, come per offrirgli una bustarella, o raccontargli un terribile segreto e ZAC!gli afferrò le palle e cominciò a stringere e a torcere con ferocia. ‘Se ci tieni alla tua bella voce da araldo, facci passare. Altrimenti potresti ritrovarti a cantare salmi in una chiesa, tra un paio di giorni...’ L’araldo gemette e negò, ma un’altra forte torsione gli fece cambiare idea, mentre io, coprendo i due con nonchalance, facevo sì che le guardie all’entrata non se ne accorgessero. ‘Potete...entrare ’ disse, prendendosi stavolta anche qualche pausa più del dovuto.”
“Ma alla fine chi vi ha annunciati?”
“Hilario, dopo aver dato una pacca amichevole sulle sue spalle flaccide. Per fortuna, quella nostra specie di finzione cavalleresca non ci fece perdere l’abitudine alla cara, vecchia, violenza fisica.”
“Non pensavo fosse così facile entrare in un banchetto. Ma c’erano molte donne?”
“Oh, sì, forse fin troppe...ma ancora non lo sapevo. Gregorio venne portato alla tavola degli scudieri e degli inservienti, dove tra lo sporco si sentiva come un re, mentre io, accompagnato da una giovane donzella..”
“Carina?”
“Ho visto di peggio. Ma non dovendo far sfigurare le altre dame,era stata scelta tra le meno attraenti, e il suo viso era piatto almeno quanto il suo seno. Comunque, ti dicevo raggiunsi in poco tempo il tavolo dei cavalieri, dove il vero banchetto ebbe inizio in poco meno di mezz’ora. Tu ci sei mai stato ad un banchetto di cavalieri?”
“guardami! Con questa faccia e senza soldi, come sarei potuto essere invitato ad un banchetto?”
“Non ti sei perso nulla di eclatante. Rutti, bestemmie, cibo volante ed occasionali risse...I cavalieri, alla fin fine, sono uomini come lo siamo noi! Fatto sta che dopo tutto il cibo incredibilmente buono e soprattutto abbondante che ci portarono gli inservienti, l’atmosfera si calmò, e venne il tempo delle educate conversazioni.
‘Sire Onofrio ’ mi chiese un cavaliere alla mia destra ‘lei è mai stato oltremare?’. Questo mi colse alla sprovvista. Non avevo mai sentito parlare di oltremare, fino a quel momento. Quasi non sapevo neanche che esistesse un mare, fa un pò te! ‘ehm...sì, certo...un paio di annetti fa, credo.’ ‘oh, quale onore dev’essere stato per lei camminare dove ha camminato il nostro signore Gesù Cristo! Quale eccitazione, e quale scorno saperli ora perduti in mano dei babilonesi!’ tutte quegli accenni a cose che non conoscevo mi mandarono quasi in crisi. Che diavolo è un babilonese? Mi rifiutai di parlare, annuendo con un rapido e insicuro cenno del capo. Ma lui continuò imperterrito. ‘spero che abbiate avuto l’onore di combattere nel glorioso – ci tenette a sottolineare quella parola- assedio di Acri!’. Mi si illuminarono gli occhi. Potevo fare lo sbruffone quanto volevo. C’erano del resto ben poche possibilità che qualcuno mi potesse correggere. ‘certo! Li abbiamo uccisi tutti, quei...ehm...nemici!’...L’accenno alla guerra santa attirò l’attenzione di molti degli invitati al banchetto ‘ma gentil signore – intervenne un cavaliere davanti a me-Acri non è stata forse presa dai nemici Saracini?’ azz...ed ecco che mi ero giocato l’opportunità di fare lo sbruffone...o no? ‘Beh, la città è caduta, ma prima...oh, prima ce lo dovevano cavare a forza il terreno, caro!Con le tenaglie!’ un’altro nobile ancora, calvo sulla quarantina e zoppo di una gamba, si intromise del discorso. ‘Sciocchezze! Tu non eri ad Acri! E da che parte delle mura avresti combattuto?’ beh...inutile dire che sudai freddo ed impallidii per pochi istanti, prima di trovare una risposta mentre tentavo inutilmente di arrampicarmi sugli specchi. ‘Non ricordo il nome del posto, ora come ora, ma so che combattei.’ gli risposi, ma lui era già impegnato ad tentare un approccio con la serva che ci portava le pagnotte. Ma gli altri...beh, gli altri continuavano ad ascoltare le mie fasulle storie di eroismo crociato. ‘E ricordo che combattei come un leone, tra l’altro!Menando fendenti a destra e a manca – fendenti che non mancai di mimare con enfasi – ma soprattutto, ricordo che il mio giovane scudiero Gregorio, era caduto in mano al feroce cavaliere Firebìz, tanto che era lì lì per essere decapitato dallo stesso, quando arrivai,facendomi largo tra lance spade e asce e ZAC un colpo quà, ZAC un colpo là e abbattei facilmente quel gigantesco campione degli infidi...ehm...nemici!’ il pubblico era estasiato, o almeno credo, dalla mia mimica, mentre eseguivo magistralmente ogni affondo e ricreavo con pathos i momenti più drammatici.”
“E quei fessi ti hanno creduto?”
“Sempre, dalla prima all’ultima parola!E come ridevano delle mie battute!”
“Sicuro che ridessero delle tue battute?”
“No, in effetti forse stavano ridendo di me. Ma l’importante per me era catturare la loro attenzione, distinguermi da quella massa di cavalieri che mangiano a gomiti stretti e a piccoli bocconi con le loro posate d’argento intarsiate d’oro. Dovevo attirare l’attenzione del signore, in un modo o in un altro.”
“Ma non hai appena detto che un banchetto di cavalieri non è diverso da una cena alle Cento Role?”
“Alle cento role ci sono posate d’argento e scodelle d’oro?”
“no, ma...” Il sagrestano, alla fine, si arrende.
“E ci stavo riuscendo, per quanto il momento propizio si sarebbe presentato dopo il ballo nel salone.”
“Quante dame c’erano?Erano tutte belle come dicono?”
“Diciamo che c’era una dama per ogni cavaliere, tranne che per me e per qualcun altro. Non che per questo mi abbassai a danzare con Hilario.”
“Dio, no!Ma non hai ancora risposto alla mia domanda.”
“Fuori sarai anche vecchio, ma dentro hai ancora il sangue di un diciassettenne, vero? Comunque, non era possibile vedere molto delle dame, a parte il viso, il portamento e un abbozzo dell’armonia del corpo. E ti dirò, ho visto di peggio, di mooolto peggio. Certo, c’era qualche falena in mezzo a tutte quelle splendide farfalle, ma la maggior parte di loro erano dame cresciute nel lusso per farsi belle e prima o poi farsi corteggiare. E dovevi vedere com’erano pulite, con che grazia si muovevano e con che stile erano vestite! Mi resi conto solo allora che stavo vivendo nel sogno di ogni villico del mio paese, essendo finalmente diventato un ingranaggio in questa frivola macchina di feste e di banchetti, da cui non mi sarei più potuto separare, senza almeno sentirne la mancanza.”
“Beato te!”
“eh già! Ma mi accorsi anche di come un contadino non possa competere con dei cavalieri quando arriva il momento in cui si deve danzare. L’orchestra attaccò a suonare e, prima che potessi anche solo accorgermene, tutti si erano disposti in due file parallele, dame da una parte e cavalieri dall’altra. Accorsi immediatamente a prendere posto in fondo alla fila dei cavalieri, e quando il ritmo si fece più serrato, le due file cominciarono ad avanzare l’una verso l’altra.”
“Oh mio dio, sembra che tu stia descrivendo una battaglia!”
“Che sia re o contadino fortunato, caro Sagrestano, un cavaliere è sempre votato a fare la guerra. Anche quando, come in questo caso, si dovrebbe fare all’amore. Hanno questo chiodo, questa fissazione che li porta a vedere la guerra come qualcosa di eroico, occasione per sfoggiare la propria destrezza e la propria audacia, mentre cavalcano lancia in resta sui loro destrieri...tanto alla fine, chi muore sono i poveri fanterucoli come me e mio padre, mentre loro se la cavano con qualche graffio o pagando un riscatto...ma torniamo a noi. Inciampai un paio di volte prima di raggiungere la ragazza che mi si era avvicinata volteggiando con grazia e porgendomi la mano...e una volta presole la mano, inciampai di nuovo, cadendo questa volta di piena faccia sul terreno...e lì il sogno si trasformò in un incubo. Mi rialzai, mentre tutti gli altri a stento trattenevano le risa, e i giullari mi guardavano ridendo apertamente e scimmiottando le mie goffe movenze. Da quel momento in poi mi limitai a camminare a seconda della velocità della musica, provando a non guardarmi intorno per evitare gli sguardi di scherno di quegli esperti ballerini. La cosa andò avanti per degli interminabili minuti finché, dopo qualche decina di scambi, mi ritrovai di fronte alla damigella che poi scoprii essere la figlia del barone locale. Era bassa, tanto che più o meno mi arrivava alla spalla, ma aveva un fisico ben formato, nonostante la sua giovane età, e la sua pelle leggermente abbronzata era la cornice perfetta per quei due ideali occhi neri.”
“Ed ecco che Stabile si è innamorato...”
“Ancora non sapevo nemmeno che cosa fosse l’amore, e quanto fosse pericoloso per un dilettante come me, ma senza dubbio quella ragazza valeva più che il semplice reddito delle terre di suo padre...anche solo per la bellezza del suo viso...”
“Questo io lo chiamo amore.”
“Per il momento,mi limitai a chiamarlo buon gusto, invece. Ricordo che non le staccai gli occhi di dosso nemmeno per un attimo, anche dopo che scambiammo il partner, e posso dire con orgoglio che lei si volse a guardarmi, timidamente, un paio di volte. Finito il ballo, dopo circa due lunghe ore, gli uomini si ritirarono da una parte a parlare di guerra e di cavalli, e le donne, come vogliono le regole della creme della creme, si misero tutte da una parte a confabulare su non so che cosa. Mi pavoneggiai anche in quel momento, raccontando ai pochi che non l’avessero già ascoltata fino alla nausea la storia dell’eroico salvataggio di Gregorio lo scudiero dalle mani del malvagio Firebìz. Ma questa volta non fui l’unico. Mille altri si inventarono storie fantasiose e,continuando a spillare vino dalle onnipresenti botti, le raccontavano sapendo di non essere creduti. Non volli essere da meno e mi inventai di guerre mai esistite, tra la mia casata ed un’altra fantomatica stirpe, di come sterminai, tutto da solo, i briganti che infestavano la campagna...e mille altre cazzate, perché in quel momento, in quella festa, due bugie ben raccontate valevano più di dieci verità.”
“Ma alla fine, la festa come finì?”
“Il morale collettivo galleggiava sostenuto da un mare di vino. Bevvero tutti, solo per amor del bere stesso, e tanto più si beveva tanto più ci si allontanava dalle preoccupazioni, più o meno grandi, che ci affliggevano, dal giudizio altrui e dal giudizio di noi stessi...La festa finì così com’era cominciata, tra rutti, bestemmie, cibo volante e occasionali risse...finche i cavalieri non cominciarono a farsi portar via dalle loro dame e dai loro servi, ad uno ad uno sostenuti e trascinati fuori dal salone a viva forza.”
“Immagino che il tuo servo fosse meno sobrio di te, a quel punto.”
“Sì, ma non era molto difficile, dato che per qualche strano gioco del destino, sono capace di reggere l’alcool ben più di loro, abituati a berne giorno e notte. Toccò a me portarlo via che non si reggeva in piedi dopo che ebbe rotto la gamba ad uno sguattero, e quando giungemmo insieme all’uscita, l’araldo ci salutò in silenzio, con uno sguardo misto di terrore, sospetto e derisione. Ma la serata non era ancora giunta completamente a termine. Abbandonato Hilario accanto ad un albero per andare a prendere Antonio...”
“Antonio?”
“Il nostro cavallo.”
“E perché Antonio?”
“Perché ci piaceva, non per altro. Un poco come Onofrio, Potentino e Gregorio. Stavo appunto entrando nelle stalle che una ragazzina, la stessa anonima inserviente che mi aveva accompagnato al tavolo, per come posso ricordare, mi si avvicinò,col capo chino, porgendomi un fazzoletto di pergamena sigillato alla meglio, e dicendolo essere della signorina Orianna. Al tempo ero più che alticcio e non considerai la cosa più di come possa considerarla un ubriaco, e nascosi la pergamena nella tasca delle mie brache.”
“Orianna...Sarà mica la figlia di Del Carignano?”
“Proprio lei, vecchio, proprio lei. Ti lascio immaginare come i postumi del giorno dopo passarono subito in secondo piano quando frugandomi le tasche vi ritrovai quel pezzetto stropicciato di pergamena. Lo aprii, provando ad ignorare il mal di testa che rendeva ogni volo di mosca ed ogni scricchiolio d’ossa un tiro alla fune giocato con il mio cervello, e non fui certo aiutato da tutti quei segni miniati frettolosamente che invano stavo provando a decifrare.
Alla fine, quindi, l’emicrania l’ebbe vinta, e lasciai sul pavimento il bigliettino, sdraiandomi di nuovo sul giaciglio, sperando in un poco di quiete. Fu Hilario a trovarlo e decifrarlo, lasciandomi, a dire il vero, piuttosto sorpreso.”
“perché, che c’era scritto?”
“Non vi prestai molta attenzione, sul momento, sorpreso com’ero dal lungo e doloroso parto che finiva inesorabilmente per dare alla luce, sillaba per sillaba, ciascuna delle parole scritte su quel ritaglio di cartapecora... Gli chiesi stupidamente se sapesse leggere, ma non mi rispose. Piuttosto mi disse, esultando, che ce l’avevamo fatta, e che per il possesso di un castello mancava solo il contratto.”
“E quindi?”
“E quindi dovevamo risponderle, e lo facevamo, almeno io, non so lui, un pò per opportunità, un pò per dovere, e un pò per passione. Presentarmi la sera stessa ad u altro banchetto, e limitarmi a ricoprirla da capo a piedi di timidi sguardi non sarebbe bastato.”
“Si può sapere cosa le avete scritto?”
“Ci volle molto perché l’ispirazione si decidesse a visitarci. E anche allora, fu solo a causa del freddo portato da una prematura, e decisamente forte, tempesta di neve. Fu sentendo il vento soffiarmi nella schiena, e Hilario lamentarsi rabbrividendo sull’orlo di una morte per ipotermia, che ebbi l’idea. ‘Dovrò compararti ad un giorno d’estate?’ proposi, e la prima reazione del mio scudiero fu uno sguardo stupito e un ‘ma che, ci stai provando?’. Quando gli feci notare che era indirizzato alla ragazza, non certo a lui, non si fece sfuggire l’occasione di scaldarsi le dita scrivendo il verso. Non so bene quanto fosse leggibile, scritto da un mezzo analfabeta con le dita paralizzate dal rigore invernale, ma era già qualcosa, senza dubbio più di quanto avrei potuto fare per conto mio.”
“Beh, basta il pensiero.”
“Non saprei, ora come ora. Ma appena Hilario finì di tratteggiare l’ultima lettera, ci coprimmo il più possibile e, io in compagnia di Antonio, il mio scudiero del suo anonimo ronzino,ce ne galoppammo verso il castello dove la brevità della fila, prevedibilmente più corta rispetto al giorno precedente, tagliò di una buona mezz’ora il tempo che avremmo dovuto soffrire al freddo.”
“Vai avanti.”
“Non c’è molto da dire su quella festa. Mangiai, come già avevo fatto, squisiti arrosti di animali sconosciuti, filetti di pesci mai visti prima, serviti con verdure affogate nel condimento...e come al solito, ogni portata veniva annaffiata di vino fin quasi alla nausea. Seguì il ballo, che ebbi la premura di scrutare da rispettosa distanza finche, ebbro di gioia e di liquore, non volli provare a mia volta, con risultati che potrei definire decenti. E come da copione, alla fine della festa, un altro lembo di carta scribacchiato e ripiegato velocemente, consegnatomi con saluti ed ossequi dalla solita servetta. E così via anche il giorno dopo, e poi, saltando il sabato e la domenica, per tutta la settimana seguente. Ogni volta una cena luculliana, un ballo ed un biglietto, a cui puntualmente rispondevo con frasi sempre più audaci ed appassionate, finche un mercoledì, alla fine, non raggiunsi il culmine della mia parabola di cavaliere.”
“Culmine?”
“Fu lei stessa a consegnarmi il bigliettino, quella sera, di nascosto, nella stessa stalla. E toltasi l’ingombrante copricapo, finalmente potei vederle i capelli...”
“Capelli di donna!Che rarità!” Esclama sarcastico il sagrestano.
“Non puoi capire, se non vedi...Erano i capelli di una giovane baronessa, nata, cresciuta e allevata tra le mura di un castello con il solo scopo di fulminare qualche povero ingenuo con un battito di ciglia.... Non sono un poeta, e non mi dilungherò in metafore, ma se non erano belli per natura, erano almeno tenuti divinamente...pulitissimi, lisci, in soffici ciocche le cadevano sulle spalle...non puoi capire, vecchio, se non puoi vedere.”
“Ti crederò sulla fiducia, allora.”
“Ma non è questo il punto. Fece appena in tempo a darmelo e a fuggire, per quello che ricordo. Me lo misi nella stessa tasca in cui avevo messo tutti gli altri, e il giorno dopo lo feci leggere ad Hilario, sacerdote officiante di questa specie di messa quotidiana, della cui fede ero divenuto attento e fanatico seguace. Mi presentai la sera stessa al solito salone, ospite abituale e forse anche un pò fastidioso, ma non per questo più temuto dagli araldi. Mi ingozzai, risi e feci ridere, danzai prendendomi gioco di me stesso, ma questa volta il finale era destinato a cambiare, e non di poco.”
“cos’è successo di tanto eclatante?”
“il Barone in persona, Gianfranco Luca Rodolfo Del Carignano, volle vedermi, nel suo studio, dopo il ballo.”
“cos’aveva da dirti di tanto importante?”
“voleva offrirmi la mano della figlia…”
“mi stai prendendo in giro?”
“No…ma ad una condizione. Dovevo fargli un favore. Un favore abbastanza grosso a dire il vero…”
“Spiegati meglio, per l’amor di Dio!” Il vecchio è sempre più coinvolto dalla narrazione del giovane Stabile.
“Semplicemente, ero lo stupido di cui aveva bisogno per rubare un contratto terriero dalla rocca dove viveva il podestà Giudo Del Cassero.”
“Quindi, quel pazzo…”
“Esatto, ero io.”
“ma lo sai, vero che hai ora tutta la città è sulle tue tracce?”
“secondo te chi sono quelli là fuori?”
“Ma mi spieghi perché lo avresti fatto?”
“Perché, perché, perché… perché avevo visto quel mondo di colori, feste, donne, gloria, poesia, perché ne volevo fare parte ad ogni costo, perché ero innamorato perso di quegli occhi neri… nella capanna dove sono cresciuto non erano ammessi sprechi, non potevamo permetterci nulla che non fosse necessario, non c’erano balli, laghi di vino o splendidi abiti di seta, ti basti sapere che la ragazza a cui ero stato promesso puzzava anche più di me....”
“Non vedo come possa essere vero.”
“Non sto scherzando, vecchio. E l’intero studio sembrava pulsare di simpatia nei miei confronti, il barone stesso, tra un abbraccio e un complimento, era riuscito a rigirare la faccenda, mostrandomela come una lotta tra il bene e l’ingiustizia, come un qualcosa di necessario per l’abbattimento di un potere malvagio e oppressore…”
“Tsk! Ogni volta che un del Cassero ha ricoperto il consolato in città, le cose sono sempre andate per il meglio…”
“Non lo so, vecchio. Davvero, non lo so. Forse non lo ascoltai nemmeno, preso com’ero dall’idea di sposarmi con Orianna.”
“Quella ragazza è stata la tua rovina!”
“Puoi scommetterci. Per quanto il suo pensiero fosse l’unica cosa capace di scaldarmi tra la neve, per lei mi sono ridotto a nascondermi dal destino in questo buco. Senza offesa.”
“Non perderti in chiacchiere e va avanti con la storia!”
“Beh, lo dissi al mio fedele scudiero, che una volta arrivati a casa, tirò fuori da un cassetto un piccolo contenitore di legno, riempito di pinze, tenaglie, grimaldelli di varie forme e dimensioni, coltelli, legni e utensili delle forme più disparate. Me lo mostrò sorridendo con orgoglio, pronto come sempre a rischiare il collo per un po’ di avventura. Poi ci incamminammo verso la rocca giù al porto, ovviamente senza casacche, scudi o insegne che potessero far saltare la nostra copertura, con solo la spada, un coltellaccio per Hilario e la sua scatola dei trucchi”
“Quale copertura?”
“Ci eravamo ‘ Travestiti ’ da contadini, presentandoci alle porte della rocca adoperando l’abusata scusa del qualcosa da consegnare, avendo ben cura di farci indirizzare alle cucine.”
“Perché proprio alle cucine?”
“Neppure la più idiota delle guardie avrebbe fatto entrare vivi due loschi individui che chiedevano di poter consegnare qualcosa direttamente al signore del castello. Le cucine erano un obbiettivo più credibile. L’importante comunque era entrare, e grazie ai semplici processi mentali dei gendarmi, non ci furono problemi in questo senso.”
“E una volta entrati?”
“Ci liberammo del pacco da cui tirammo fuori le armi, ignari del prevedibile esercito che il podestà aveva posto a guardia del luogo, e incoscienti aprimmo la prima porta che ci capitò a portata di mano.”
“Cosa c’era?”
“Davanti ai nostri occhi si apriva un lungo corridoio, che intuimmo passasse sotto le mura, giungendo, in un modo o nell’altro, al mastio dove il console Del Cassero stava dormendo. Ero eccitatissimo, teso fino allo spasimo, capace di balzare e di estrarre la spada per qualsiasi rumore sospetto, attraversando senza un fiato ogni corridoio, salendo con prudenza ogni rampa di scale. Hilario allo stesso modo stava avanzando all’erta, catalogando attentamente ogni dettaglio con i suoi occhi lucidi di follia. Finché, sollevati, non giungemmo davanti al portone di legno,mal guardata da due sentinelle addormentate davanti a un fuocherello, che si parava tra noi e il nostro obiettivo. In pochi minuti, hilario riuscì ad avere ragione della serratura, mettendo in pratica gli anni di piccoli furti e ‘Lavori’ per questo o quel borghese, e senza che le guardie se ne potessero accorgere, entrammo nella stanza chiudendoci alle spalle i battenti. Ci ritrovammo davanti una normale stanza da letto, spoglia d’addobbi e dominata dal gran letto centrale a baldacchino, le cui lenzuola purpuree erano accarezzate dai raggi della luna piena, unica fonte di luce che potesse aiutarci nella nostra ricerca.”
“è stato così facile entrare nella rocca?”
“L’entrata è stata in effetti la parte più semplice. La vera impresa fu il rimanere calmi quando il figliolo del barone si svegliò chiedendoci chi fossimo. ‘siamo amici - gli disse Hilario - Ora torna a dormire e non rompere tanto le palle ’. Glielo disse con voce calma e ferma, ma probabilmente con più severità di quanto quel bambinetto di 5 anni fosse pronto ad accettare senza combattere. ‘ Perché ’ ci chiese, ma non una volta, un centinaio, rigirandoci contro ogni nostra risposta. Non so se fu questo, o il rumore del nostro scartabellare a svegliare il podestà, ma si alzò e con una voce del tutto diversa da quella del figlio, ci chiese anche lui chi fossimo. Fu il panico. Hilario gettò a terra tutti i documenti che stava sfogliando e a cui stava togliendo il sigillo, si precipitò sulla porta, che bloccò rovesciando un grosso tavolo e spostando una credenza. Intanto io estrassi la spada e goffamente gliel’agitai davanti per provare a spaventarlo, riuscendo, sorprendentemente, nel mio intento.”
“Avete i riflessi veloci!”
“Probabile. Ma se la debole domanda del console non era bastata a svegliare le guardie, di sicuro il fragoroso spostarsi del mobilio li distolse dal loro sonno. Il semplice bussare sul portone rendeva quell’esperienza, che i nostri piani volevano avvolta dal silenzio, quanto di più simile ci fosse ad una serie di martellate sulla testa. Senza contare il pianto del bambino, che aveva smesso di vedere tutto come un gioco, le disperate grida di aiuto del console, Giudo Senior, che aveva resistito alla pressione per molto meno di Giudo Junior. ‘Hilario – gli chiesi – ricordami un po’ perché stiamo facendo tutto questo?’ ‘per un tocco di gnocca e un francobollo di terra ’ mi rispose, intento a cercare, lui che sapeva leggere, il contratto che chiedevamo. ‘Tecnicamente – mi venne da correggerlo – i cavalieri lo chiamano amore cortese ’ continuavo a tenere d’occhio il nobile, che era prossimo a bagnarsi le lenzuola, e non solo di sudore. Ma hilario, ancora lucido volle replicare ‘Beh, in teoria né io né te, Stabile, siamo mai stati cavalieri ’ ‘Touche ’ gli risposi, ammettendo la stoccata dialettica.”
“Ma alla fine il contratto lo avete trovato o cosa?”
“Hilario ci stava mettendo troppo tempo. A malincuore assunsi un tono di cattiveria goffo almeno quanto la mia scherma, e ordinai al vecchio console di mostrarmi dove fosse quello stupido contratto. Contro ogni mia più rosea aspettativa il nobile, non certo un cuor di leone, lo indicò con il dito, probabilmente incoraggiato in questo senso dalla gelida punta d’acciaio che poteva sentire sul suo pomo d’Adamo. Hilario, dopo la solita lettura lentissima e sforzata confermò, e accarezzato sulla testa Giudo Junior, ci tuffammo senza pensarci dalla finestra, inzuppandoci completamente con l’ acqua gelida del porto.”
“Ma così non avete bagnato anche la pergamena?”
“Hilario l’ha messa nella sua ‘scatola magica ’ subito dopo averla trovata. Fatto sta che a furia di bracciate ci allontanammo dalla rocca, dimostrando al mondo e soprattutto a noi stessi che in fondo avevamo un valore diverso dalla nostra capacità con l’aratro o coi pennelli. Il tempo di arrivare a casa, cambiarsi e stendere i panni ad asciugare al fuoco ed eravamo già al galoppo, io su Antonio, Hilario sul suo mulo, diretti verso il castello dei De Carignano. Una volta arrivato e sistemato il cavallo nelle stalle, cominciai a correre percorrendo in un attimo ogni corridoio, ogni salone, ogni rampa di scale che si parava tra me e lo studio del Barone, per riportagli il sudato documento. Lui era dentro, che mi aspettava, con il suo ampio sorriso stampatogli sul viso come il marchio a fuoco che orna il culo di una vacca. Ignorò il mio sforzo, nemmeno tentando di fingere simpatia come aveva fatto la volta prima, e mi strappò di mano la pergamena. La aprì. Si sedette. La lesse. Ricordo che in petto lo stomaco stava facendo del suo meglio per mettere alla prova il mio autocontrollo, mentre si susseguivano immagini di Orianna che avanzava lentamente verso di me, candidamente vestita, sotto la volta affrescata di una cattedrale. Finché il barone, a malapena rivolgendomi uno sguardo, mi liquidò, semplicemente muovendo la mano. La mia gamba destra aveva già attraversato mestamente l’uscio quando la sua voce mi fermò. ‘Stabile - mi disse, usando il mio vecchio nome con tanta naturalezza che quasi non me ne accorsi – la prossima volta, finisci il lavoro e ammazza Del Cassero.’ Mi girai lentamente, ammutolito, sorpreso e confuso, incapace di spiccicare anche solo mezza parola. ‘Non essere così sorpreso se sono riuscito a scoprirti nonostante il tuo “ingegnoso piano”.’. Ridacchiava ancora di più mentre sottolineava queste ultime parole. ‘Non era poi così geniale come trovata, né così difficile da scoprire, se ci pensi. Steccoammonticchiato sull’Arzilla...ma per favore...e quelle storie narrate e imbastite con tanta speranzosa ingenuità...Il tuo modo di parlare, di muoverti, di mangiare, il grezzo patetismo con cui guardavi e corteggiavi mia figlia, i tuoi audaci e rozzi “versi clandestini”, se così si possono chiamare...’ Scoprii in questo modo che lui aveva sempre saputo tutto. Ma non era finita qui, e dopo un intervallo di pochi secondi riprese a colarmi a picco. ‘ Solo il più stupido degli invitati al banchetto- mi disse- non lo avrebbe potuto capire la prima volta, o la seconda, se vogliamo.’ Il mondo che mi ero costruito addosso cadde rovinosamente su se stesso.”
Lentamente e in silenzio, il sagrestano annuisce.
“Ma non era finita qui oh, no”- Continua Stabile – “ non ero ancora arrivato a vederlo per com’era davvero. ‘Fu quando i messaggeri di San Bernardo mi riferirono che il loro servo Stabile era fuggito qualche settimana prima, che il mosaico prese completamente forma. Ora Stabile, o se preferisci – mi disse ridendo apertamente di me – Onofrio, la scelta è solo tua: puoi tornare a lavorare per San Bernardo, e morire vecchio pascolando capre o spalando letame...oppure puoi diventare mio servo, condividere la tua fetta di vita e di ricchezza, lavorare per me e contribuire a cambiare, per quanto poco, la sorte della nostra città. La scelta, lo ripeto, è solo tua.’ Quindi il barone impugnò una penna d’oca. L’arma con cui, a suo piacimento, poteva decidere a suo piacimento del mio destino.”
“E tu cos’hai scelto?”
“Scelsi la libertà. La mia mano destra raggiunse l’elsa, e come spinta da volontà propria, la spada volò silenziosa verso il collo del barone, concretizzando in un fendente tutto il peso astratto del castello di sogni che avevo eretto sulla mia persona. Con quella spada mi ero aperto una terza via non contemplabile o desiderabile da nessuno se non da me, come ebbi presto a scoprire.
Ma prima ancora che potessi accorgermene, Gianfranco Luca Rodolfo Del Carignano giaceva esanime sul pavimento del suo studio, e la punta della spada, fino a quel momento perfettamente immacolata, fu annerita dal sangue ancora caldo del nobile. La rinfoderai velocemente, e con altrettanta rapidità presi nuovamente la porta dietro la quale il mio fedele scudiero mi aspettava. Lo spessore del legno aveva fatto trapelare all’esterno della stanza soltanto un pugno di suoni distorti e confusi, e quando me ne uscii di corsa, Hilario mi seguì, senza farmi domande. Percorremmo il castello in tutta la sua lunghezza, e arrivati al corridoio che portava alle stanze di Orianna, finalmente si decise a fermarsi, e a chiedermi perché stessimo correndo, cosa fosse successo di tanto grave nello studio del Barone.. ‘L’ho ucciso! – gli sussurrai - L’ho ucciso!’, e in risposta al suo sguardo confuso, gli riassunsi brevemente tutta la faccenda, dal monologo del nobile alla sua violenta dipartita. Indietreggiò, spaventato. ‘Cos’avrei dovuto fare?’ gli chiesi, tra l’orgoglioso e il disperato, e tranquillamente allarmato mi rispose, non prima di aver interposto il palmo della sua mano sinistra tra me e lui. ‘questa storia è andata troppo in là. è stato divertente, a volte eccitante, sgattaiolare all’interno della Rocca, inventare aneddoti di ineguagliabile coraggio, scrivere versi appassionati ad una bella sconosciuta....’ ‘Tu cos’avresti fatto al mio posto!’ gli gridai, dando finalmente sfogo al ribollire che covavo dentro. ‘Non lo so ’ mi rispose ‘Ma io non sono pronto per rischiare seriamente la mia vita per te, per guadagnarci meno che nulla. Non voglio finire ai ceppi, o peggio, morto di stanchezza in una cella. Addio, Stabile. È stato un piacere servirti, finché è durata.’ E se ne andò, di corsa come mi aveva seguito, abbandonandomi davanti alla porta lasciandomi solo a fare i conti col fiatone e quel ribollire di emozioni.”
“Vigliacco!Bastardo!” Il sagrestano agita i pugni, forse perfino più coinvolto emotivamente nel racconto di come lo sia Stabile.
“Come ti saresti comportato al posto suo? Pensaci con calma, prima di rispondere. Avresti forse rischiato la tua vita, per quanto precaria, o la tua libertà ,tanto faticosamente guadagnata, per un folle precipitatoti in casa da un passato che volevi soltanto ricordare una o due volte l’anno? Mandare tutto a puttane per un contadino che voleva giocare al cavaliere, e che quando il gioco ha smesso di divertirlo si è trasformato in assassino? Tu chiamala codardia, io lo chiamo buon senso.”
“Sicuramente, caro Stabile, non è amicizia”
“Se ho imparato qualcosa in questo mesetto di cavalierato, è che le vere amicizie non si forgiano in poche settimane di feste e banchetti...”
“Ma tornando al racconto, cosa c’eri andato a fare nelle stanze della ragazza?”
“Ancora prima della defezione di Hilario, non volevo che tutto cadesse completamente a pezzi. Non volevo abbandonare la mia Orianna....volevo prenderla, portarla con me da qualche parte...”
“Dove?”
“Non lo so, lo avrei deciso poi, e volevo dedicarle un distico per ogni giorno dell’anno...Aprii la porta, e la vidi che scriveva qualcosa sulle pagine bianche di un tomo rilegato. L’afferrai, ignorandone i lamenti, poggiandomela sulla spalla destra, e cominciai a correre. Percorsi un buon tratto, spinto dalla forza della paura e della rabbia, ma arrivato al portone principale senza aver incontrato nessuno, smise di lamentarsi e mi chiese, calma, di fermarmi e di lasciarla lì, chiamandomi con quel nome che tanti problemi mi aveva dato negli ultimi venti minuti. Eppure, la tranquillità della sua voce mi rese docile come un cagnolino, e obbediente feci quanto mi aveva chiesto. ‘Addio’ Mi disse allora, semplicemente. Ma io non volli arrendermi, e continuai a stringerle i polsi, descrivendole il futuro che avevo immaginato per entrambi, le dissi che l’avrei portata sui monti, o dove volesse, e che lì avremmo vissuto, da soli, insieme, senza classi sociali a dividerci, senza doverci piegare ai desideri altrui prima di poter sfogare la nostra passione...E lei mi guardò come poteva guardare un bambino che giocava a fare l’adulto...‘non capisci ’ disse passandomi una mano sulla guancia mal rasata ‘ non riesci a vedere più lontano del tuo naso? Io non ti ho ami amato, né mai potrei...’ ”
“E tutti quei foglietti?”
“Non erano voluti! Era tutta una balla architettata dal Barone per attirarmi al castello, e lì legarmi, darmi uno stimolo per lasciarmi studiare, e un obiettivo in vista del quale avrei fatto tutto ciò che mi avesse chiesto. Trattenei a stento una lacrima, appena lo seppi. Ma lei continuò ad infierire, dolce e inconsapevole di quanto l’avessi a cuore. Mi fece sapere che si era solo prostituita nello spirito, che lei era la figlia di un barone, io solo un contadino, e fuggiasco, per di più. Continuava intanto ad accarezzarmi il viso con la sua delicata mano, la mancanza di boria nelle sue parole, l’infinita profondità di quei bellissimi occhi...soffocarono le fiamme di rabbia che erano avvampate fino qualche a secondo prima. Ci guardammo un’ultima volta, seppure per pochi secondi. ‘Sarai contenta di sapere che non dovrai più prostituirti. Il magnaccia è morto. Addio!’ E senza volgere lo sguardo me ne andai, spaventato dai passi ferrati che si affrettavano alle mie spalle, e giunto alle stalle, strattonando senza riguardo lo stalliere, montai su Antonio, allontanandomi per sempre da quel castello maledetto.”
“Che puttana!” Lo sguardo del sagrestano è ora una maschera di mestizia, quanto prima lo era di rabbia.
“Capiscila, ha fatto quello che le ha ordinato il padre...”
“Tu hai la dannata tendenza, Stabile, a scusare sempre tutti! Ma lo hai visto in che faccenda ti sei andato a tuffare, in mezzo a quale gente? Il nobile cui giurasti fedeltà si è rivelato essere un bastardo; l’unico amico su cui credevi di poter contare ti ha abbandonato appena giunte le vere difficoltà; e la donna che hai corteggiato con tanta appassionata ingenuità, ti guarda dall’alto in basso e perché l’hai costretta a fare la puttana spirituale...ma lasciami perdere e continua.”
“Anche a me c’è voluto un pò per capire e per calmarmi, e al tempo, come del resto è giusto, mi mancava ben poco per esplodere. Fatto sta che una volta usciti dalla cerchia esterna delle mura, il resto del mondo scomparve nella neve, e un pò per caso un pò per fortuna, giungemmo sulle rive ghiacciate del Metauro. Lì, con rabbia, mi spogliai della casacca e della cotta, scagliai lo scudo, quell’impagabile pezzo d’arte, tra i flutti, e con un gesto malinconico ma deciso, mi slacciai il cingolo della spada, gettandolo a perdersi pere sempre nella corrente. Poi venne il turno di Antonio. Non senza un pò di tristezza, gli porsi una zolla d’erba tirata fuori dalla neve dicendogli ‘Beh, siamo rimasti in due.’. Ma sapevo già che non mi apparteneva, non mi era mai appartenuto, e slegatolo, lo lasciai libero di tornarsene nel castello del suo antico padrone, dove sarebbe stato accolto come un ospite d’onore.
E così ,tra un pianto ed un respiro affannato, morì Onofrio di Steccoammonticchiato sull’Arzilla marchese di Potentino, rinato nello stesso momento come il contadino Stabile, non più mero oggetto parlante dell’abbazia di San Bernardo, ma unico padrone e solo arbitro della sua sorte. Dopo di ciò non feci molto, limitandomi a venire a Fano aspettando in chiesa l’aggrupparsi dei miei nemici fuori dal Duomo, mangiandomene una buona ciotola di zuppa calda e narrando la mia triste storia al sagrestano.”
Ora che la storia è finita, non c’è molto altro di cui parlare, e un imbarazzato silenzio cade nella stanza.
È il sagrestano a romperlo per primo.
“Hai avuto del coraggio, giovane!”
“Coraggio? Che coraggio ci vuole a starmene rinchiuso in una sagrestia, a fuggire dal mondo una volta che la fortuna ha smesso di sorridermi? Non ho fatto nulla di coraggioso, io. Sono solo un povero villico incapace di accettarsi per quello che è.”
“E questo è già qualcosa, se ci pensi.”
Passi pesanti, di donna questa volta, lentamente si avvicinano, arrivando dalla chiesa.
Sono di una matrona, parecchio in carne, che porge al rifugiato un’altra ciotola, poggiandogli una mano sulla spalla per consolarlo. Non ha udito nulla del racconto, ma il semplice sguardo di quel ragazzo così abbattuto stimola in lei un senso materno troppo a lungo soppresso.
“ è vero – gli chiede – che come dicono quei tizi là fuori hai ucciso, rubato, e abbandonato il tuo padrone?”
Ma è il sagrestano a risponderle. “Sì Gina. È vero. Ma è una storia davvero troppo lunga. Penso che sia il momento di lasciarlo solo.” E detto questo, comincia lentamente ad alzarsi, e un passo dopo l’altro, si incammina verso l’uscita della sagrestia insieme alla corpulenta perpetua del parroco.
“No, rimanete qui” Fa stabile, dopo aver finito la seconda ciotola, ma questa volta con calma, lentamente, assaporandone ogni caldo boccone. “Tocca a me andarmene.”
“Hai del coraggio, giovane!” il sagrestano ripete la sua ammirata affermazione.
“O forse ho deciso di non rimanere chiuso qui, per sempre, come un topo.”
“Ma vedrai che non ti uccideranno!Saranno clementi!” La Gina tenta di consolarlo, non credendo nemmeno lei in quello che dice.
“Grazie, Gina, ma è la mia vita, quella di uno Stabile qualunque, contro quella di Gianfranco Luca Rodolfo Del Carignano. Ci vorranno almeno dieci me per farla pari. Addio, vecchio, è stato bello avere qualcuno con cui sfogarsi.”
Ma il vecchio non risponde mentre il contadino indossa il suo mantello uscendosene con la dignità di chi è stato cavaliere, seppur per pochi giorni, e si limita a salutarlo con un cenno della mano.
Fuori dalla chiesa, la folla pagata dai Del Cassero, gli armigeri fedeli al Barone Del Carignano, gli inviati dell’Abbazia e qualche cittadino annoiato, lo scherniscono, e presto Stabile si ritrova incatenato, sotto una pioggia di colpi, bastonate, sputi, pugni e calci, finche non cade privo di sensi al suolo, lasciando un velo scarlatto sul letto di neve, per poi venire trasportato via verso le prigioni da una coppia di energumeni.
La Gina non vuole guardare, ma il vecchio sagrestano dalle basette canute ha visto tutto, e distoglie lo sguardo solo quando un forte scampanio non indica l’inizio della funzione vespertina. Si allontana, tra sospiri e un mezzo pianto borbottando un paio i preghiere dedicate a San Bernardo.

[Modificato da Niceforo Cesare 28/03/2006 23.20]

Keko01
00martedì 28 marzo 2006 23:53
Te possino caricatte!!!!!

Lo chiami raccontino? Dammi tre settimane di tempo per leggerlo......anvedi questo!!!!!



Keko [SM=x629185]
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