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IL TORTELLINO: UN’INVENZIONE LEGGENDARIA

Ultimo Aggiornamento: 04/09/2006 13:23
04/09/2006 13:20
 
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Storia e leggenda si conoscono da sempre, e si sono sempre frequentate. La Storia considera la leggenda come una vecchia nonna tanto dolce, ma un po’ via di testa: i suoi racconti sono affascinanti, ma sono un fritto misto di ricordi individuali e collettivi, di vecchie letture, sogni e fantasie. Per la Leggenda, la Storia è troppo pragmatica: un po’ arida, così attaccata alle carte (i documenti) e ai numeri (le date): una specie di contabile. La Leggenda canta, la Storia conta, ma entrambe raccontano. Ciascuna col proprio stile, ovviamente. Ed è proprio quello che succede a proposito dei tortellini. Per il rispetto dovuto all’età, sentiamo per prima la Leggenda. Secondo A. Panzini, il Know-how del tortellino va ricercato - e ritrovato - sul fondo di un secchio. Per amor di verità, di una secchia, la più famosa della letteratura; La “Secchia rapita” cantata dal poeta modenese Alessandro Tassoni nel 1624. La storia (qui intesa come trama dell’opera) narra, in termini burleschi e canzonatori, dell’eterna rivalità fra Modena e Bologna: due città troppo vicine, e troppo sanguigne, per non accapigliarsi ad ogni occasione. E con ogni pretesto, come la proprietà di una comunissima secchia tarlata, di quelle che si usano per tirar su l’acqua da un pozzo. Per via della secchia trafugata dai modenesi scoppia una guerra eroicomica che dura ben dodici canti; vi prendono parte l’Olimpo al completo, re Enzo, e personaggi quali la guerriera Renoppia e il conte di Culagna. Alla Secchia Rapita si sarebbe ispirato il poeta ottocentesco Giuseppe Ceri, che in un poemetto racconta della spedizione terrena di tre divinità dell’Olimpo: Bacco, Marte e Venere. I tre, venuti a dar man forte ai modenesi (ciascuno secondo le proprie competenze) in una delle tante guerre contro i bolognesi, si fermarono a dormire in una locanda di Castelfranco Emilia, al confine tra le province delle due città belle e belligeranti. Il locandiere (poteva andare diversamente?) venne conquistato dalle meravigliose fattezze di Venere, e decise di riprodurne l’ombelico – che era riuscito a sbirciare – con la pasta sfoglia che stava preparando giù in cucina. A questo punto la leggenda tace, soddisfatta. E salta su la petulante Storia: è tutto sbagliato. Tanto per cominciare, Tassoni era modenese, e non avrebbe mai fissato a Castelfranco - avamposto dei Bolognesi - il luogo di nascita del così aspramente conteso tortellino. A conferma di ciò, nella “Secchia rapita” - prosegue implacabile la Storia – dell’ombelico di Venere non c’è traccia né impronta: l’invenzione è dunque tutta farina (sic) del sacco di Ceri, che nei suoi versi dice testualmente:

“….e l’oste, che era guercio e bolognese,

imitando di Venere il bellico

e con capponi e starne e quel buon vino

l’arte di fare il tortellino apprese.”

La Storia non può comunque cantar vittoria. Far le pulci alla leggenda è una cosa: ma tirar fuori le carte che testimonino la nascita del tortellino, è tutta un’altra storia. Non meno nebulosa, in verità.

Il Cervellati, storico degno di fede, segnala che nel secolo XII a Bologna si mangiavano i “tortellorum ad Natale”. Una festività, quella natalizia, molto vicina al solstizio d’inverno (il 21 di dicembre).

Da quelle parti, in quei giorni fa un freddo da accapponare la pelle. E quale alimento è più corroborante e calorico del brodo di cappone, tuttora il più fedele compagno del tortellino?

D’accordo; questa non è una prova, è una supposizione. Ma tocca accontentarsi: prima del XII secolo non è stato trovato alcun riferimento al tortellino.

Solo in seguito comincia a comparire qualcosa; in un libro di ricette trecentesche alcune fonti fanno riferimento a una ricetta dei “torteleti de enula”, un’erba presente in Emilia.

La ricetta è redatta in dialetto modenese, che conclude così: “…e poi faj i tortelli pizenini in fogli di pasta zalla”. Il riferimento alla pasta sfoglia, gialla per la presenza delle uova, appare di evidenza solare: e “pizenini”, piccini sono questi “tortelli”, proprio come attualmente sono i tortellini.

Siamo comunque ancora nel campo delle possibilità. E ci resteremo per tutto il 400. In compagnia di Giovanni Boccaccio.

Nel terzo racconto dell’ottava giornata del Decamerone, Calandrino, Bruno e Buffalmacco, alla ricerca dell’elitropia, la pietra che fa diventare invisibili, finiscono nel Paese di Bengodi, dove “….stavan genti che niuna casa facevan che far maccheroni raviuoli e cuocergli in brodo di capponi.”

Ma quali maccheroni raviuoli!, dicono gli emiliani. Dovevano essere certamente dei tortellini: chi sprecherebbe così del delizioso (e sostanzioso) brodo di cappone?

Per uscire dal territorio del forse, ed entrare in quello del probabile, dobbiamo arrivare al 1500, cifra tonda.

Nel diario del Senato di Bologna quell’anno si riporta che a 16 Tribuni della Plebe riuniti a pranzo fu servita (tra l’altro) una “minestra de torteleti.”: una ricetta che è probabilmente quella degli odierni tortellini. Pochi anni dopo, nel 1570, un Cuoco bolognese (forse Bartolomeo Scappi, cuoco di Pio V) fece stampare un migliaio di ricette tra cui c’era pure quella dei tortellini.

Da questo momento si viaggia più spediti. Nel 1664 Vincenzo Tanara, nel citatissimo (a ragione) “L’economia del cittadino in Villa”, descrive i “tortellini cotti nel burro.”

Nel 1842 il francese Valery, viaggiatore e bibliografo, segnala un “ripieno di sego di bue macinato, tuorli d’uovo e parmigiano”, che altri non è se non il trisavolo del tortellino attuale.

Il tortellino era insomma nato, e stava benissimo. Ma non viveva mai abbastanza a lungo da farsi conoscere: per le caratteristiche della pasta e del ripieno, in capo a pochi giorni, se non veniva mangiato, era infatti da buttare.

Per la consacrazione dei tortellini bisognava trovare il sistema per conservarli. Vi riuscirono i fratelli Bartagni, che nel 1906 riuscirono a portarli fino in California, alla Fiera di Los Angeles, dove furono molto apprezzati. Segno che si erano mantenuti bene.

Da allora il tortellino si è affermato, e non si è fermato più.
04/09/2006 13:22
 
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L’ARTE NOBILE DEL TORTELLINO
Si fa presto a dire tortellini. E pure a mangiarli. Purchè ci sia qualcuno che li prepari. E lo sappia fare come si deve. Perché va detto, senza far torto a nessuno ( nemmeno un tortellino piccolo così ) che non tutti sono all’altezza. Chi prepara i tortellini? E con quali ingredienti? La risposta alla prima domanda viene dal passato. Un tempo chi faceva i tortellini li faceva a domicilio dei clienti. Almeno nelle grandi occasioni, come i matrimoni, in cui la cosa più importante, per chi invita e per chi viene invitato, è come si mangia. In Emilia, la patria del tortellino (sulla Regione non ci sono dubbi: sulla città è ancora in corso una plurisecolare vertenza tre Bologna e Modena), la fattrice, la generatrice di tortellini era lei: la “rezdora”.

Parola in dialetto emiliano che vuol dire “reggitrice”. Nelle campagne, la rezdora era la donna che mandava avanti la casa, cucina compresa. Quando alle capacità organizzative univa l’abilità culinaria, la rezdora veniva “prenotata” per banchetti e matrimoni. A cose fatte, stanca ma felice per il successo riportato, veniva ricondotta a casa sua, e portava ai familiari, oltre al compenso ricevuto, pure una bella quantità di “avanzi” di prima scelta. Tutto strameritato, e spesso frutto del lavoro di più giorni, non solo quello della festa. La rezdora veniva infatti prelevata con anticipo, perché potesse rendersi conto sul posto di ciò che le serviva. Per fare cosa? Tutto; ma sopratutto i tortellini.

Del tortellino la rezdora sa ogni cosa. Per esempio, sa che va lasciato cuocere nel suo brodo. Un atteggiamento tutt’altro che fatalista, visto che “suo” non si riferisce al tortellino ma alla rezdora. Al brodo che ha preparato lei.

Per il tortellino, il brodo di cappone è la morte sua (e quella del cappone, evidentemente). Il cappone è un gallettino nato tra aprile e maggio, e castrato ad agosto, quando pesa circa un chilo e mezzo. A Natale ha raggiunto il peso giusto, tra i quattro e i sei chili. Se il cappone non c’è, la gallina (possibilmente vecchia), il pollo o il galletto possono prendere il suo posto in modo onorevole.

Come si fa un buon brodo si sa. Oltre alla carne (la parte grassa e la parte magra devono essere entrambe rappresentate) occorrono le erbe aromatiche: costa di sedano, cipolla, carote e prezzemolo. Chi ne ha voglia ci può aggiungere un pomodoro o una patata. L’acqua è fondamentale (un litro per ogni 100 grammi di carne) e va aggiunta di tanto in tanto per compensare l’evaporazione (e non per allungare il brodo).

Elemento imprescindibile per la buona riuscita del brodo è il tempo. Perché sia degno di tal nome, e dei tortellini che vi andranno a morire, il brodo deve stare sul fuoco quattro ore, o giù di lì. La rezdora non ha bisogno di star lì altrettanto: deve però tenerlo d’occhio. L’occhio del padrone ingrassa il cavallo, quello della padrona (la reggitrice) sgrassa il brodo: di tanto intanto deve infatti eliminare gli “occhi” di grasso, insieme alla schiuma che si va formando in superficie.

Per potersi dichiarare sgrassato, il brodo non passa soltanto per la privazione degli occhi: dovrà anche passare per un colino fitto, o per un panno umido ben strizzato.

Perché un’ebollizione così lenta, e quindi lunga? Per consentire alla carne di cedere le proprie sostanze al brodo un po’ per volta.

Mentre il brodo s’insaporisce la rezdora non se ne sta con le mani in mano: è una che tiene le mani in pasta (è per questo che la chiamano). La pasta del tortellino.

Diciamolo subito: il tortellino non è altro che una pasta ripiena. Di cosa, lo vedremo poi. Siccome non esiste contenuto senza contenitore, occupiamoci prima di lui, o meglio di lei: la pasta.

Andando a ritroso, pasta vuol dire grano. E grano duro, che tiene l’ebollizione, e non si sfalda. Al mulino il grano viene ridotto in farina. Di farina ce n’è molte qualità, e la pasta sfoglia è figlia di almeno tre-quattro di esse, selezionate e miscelate fra loro, per assicurare il giusto mix di cottura e sapore.

Dopo la farina, uova, sale, ed olio. D’oliva, e di gomito: è il momento di impastare insieme tutti questi elementi. Dal vigoroso e sapiente impasto verrà fuori la pasta del tortellino.

La pasta dev’essere morbida. Quanto? Q.b. Quanto basta. Queste due consonanti, odiate da chi non sa cucinare, e inutili per chi lo sa fare, vogliono dire non troppo morbida (altrimenti si attacca alle dita), ma nemmeno troppo poco, se no si spezza sotto le mani. All’eccessiva mollezza si ovvia aggiungendo della farina, alla secchezza si pone rimedio con un po’ d’acqua (in che dosi? q.b.)

A pasta ben amalgamata e gommosa, fa la sua comparsa nelle mani della fattrice il matterello. E’ il momento della verità. Non è più possibile tirarla per le lunghe, bisogna tirare la sfoglia. Un ‘impresa delicatissima e non priva di rischi. Una volta tirata a regola d’arte, la “pastella” è di un bel giallo sole: e come il sole è grande e rotonda. Se ne sta lì splendente, distesa sulla tavola. Ancora non sa che sta per essere straziata e sminuzzata, allo scopo di rendere possibile il raggiungimento dello Scopo Ultimo: il tortellino.

Il coltello è già entrato in azione. Prima alcuni tagli paralleli riducono la pasta in strisce, poi dei tagli perpendicolari a questi danno vita a tanti quadratini di circa 2 cm. di lato. Da quest’operazione di chirurgia alimentare sono infine nati i tortellini. O quantomeno il loro involucro.

Stretta (sottile) è la sfoglia, larga è la via che conduce al tortellino: quasi un’autostrada. La favola del tortellino è piena di passaggi obbligati, si potrebbe dire che ne è ripiena.

Il ripieno è costituito da carne tritata, cruda e/o cotta: brasato di manzo, salsiccia, prosciutto, arrosto di maiale o di vitello, pollo cappone, mortadella, pancetta. Ma c’è spazio per tutto: bietole, cannella, patate e finanche pesce. Il ripieno è a sua volta pieno di formaggio.

Per fare un buon tortellino, (oltre al grano, di cui s’è detto) ci vogliono infatti sia la grana che il grana. Meglio se parmigiano.

La grana una volta occorreva per la rezdora, ed ora serve per acquistarlo dove si riesce a trovarlo buono.

Per un buon tortellino il parmigiano è essenziale. E’ lui il formaggio più adatto ad entrarvi. Guarda caso, si fa in Emilia-Romagna. E non deve assolutamente essere fresco, bensì stagionato: dai 12-18 mesi fini ai 4 anni.

Basta così: ormai tutto è pronto per il matrimonio fra la pasta e il ripieno. Sono fatti l’uno per l’altra, perciò sembra tutto facile. Ma provateci un po’ voi. Per scoprire quant’è complicato farli stare insieme occorre essercisi passati.

Amalgamare la pasta con il ripieno è infatti un’arte consumata; quasi un’alchimia. Per dar vita al Tortellino si deve prendere un pizzico (non di più, ma neppure di meno) di ripieno, sistemarlo sul quadratino di pasta, e poi chiudere la sfoglia sul ripieno. Con una sapiente pressione nei punti giusti.

Infine, la cottura. I tortellini vanno cotti con delicatezza, facendoli cadere lentamente, perché non si incollino. Il tempo di cottura è breve, ma il piacere che si prova nel gustare i tortellini è lungo. E si prolunga nel ricordo.
04/09/2006 13:23
 
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RICETTA TRADIZIONALE TORTELLINI IN BRODO
PER LA PASTA:

- farina: 800gr.

- uova: 8

PER IL RIPIENO:

- polpa di maiale:150 gr.

- polpa di vitello:150gr.

- salsiccia: 100 gr.

- prosciutto crudo:100 gr.

- mortadella:50 gr.

- uovo: 1


- parmigiano grattato:150 gr.

- pane grattugiato:1/2 cucchiaio

- burro: 30 gr.

- sale: q.b.

- noce moscata: q.b.

PER SERVIRE:

- brodo di manzo: 2 litri

- parmigiano grattato: q.b.

1-Fatevi macinare 2 volte dal macellaio il vitello, il maiale e la salsiccia. A parte fatevi macinare il prosciutto e la mortadella. Fate sciogliere il burro unitevi la carne macinata, fatela cuocere per qualche minuto, a fine cottura salatela, poi scolatela dall’acqua che inevitabilmente il macinato ha fatto nella cottura e lasciate raffreddare.

2-Preparate il ripieno : in una ciotola versatevi la carne macinata cotta, il prosciutto e la mortadella crudi, il parmigiano, il pane grattugiato, l’uovo, aggiustate di sale e spolverizzate con pochissima noce moscata grattugiata, mescolate bene l’impasto e mettetelo in frigorifero.

3-Preparate la pasta: impastate la farina con le uova fino ad avere un impasto liscio ed omogeneo e morbido. Tirate la sfoglia, piuttosto sottile, tagliate aiutandovi o con la rotella o con l’apposito arnese dei quadrati di 3-4 cm.Il vero tortellino è abbastanza piccolo.

4-Ponete al centro di ogni quadrato di pasta un po’ di ripieno prima preparato, poi piegate la pasta a triangolo facendo aderire bene gli orli.
Dopo aver stretto tra il pollice e l’indice di entrambe le mani gli angoli del lato più lungo, fate ruotare con la mano destra il triangolo di pasta
intorno all’indice della mano sinistra, poi riunite i 2 angoli e stringeteli fino a farli combaciare, procedete così fino ad esaurimento degli ingredienti.

5-Colate il brodo, quando bolle buttatevi i tortellini, fateli cuocere alcuni minuti, circa 5( ma dipende anche dallo spessore della pasta)
Serviteli in brodo e spolverizzateli di parmigiano grattugiato.

Consiglio: una volta preparati i tortellini, possono essere congelati e conservati per 2-3 mesi. Per congelarli ben separati, è meglio prima disporli su di un vassoio in orizzontale per un'oretta nel freezer, e poi una volta congelati, possono essere racchiusi in sacchetti. Vanno buttati nel brodo bollente (in nessun caso nell'acqua bollente!) ancora congelati.

[Modificato da sole281 04/09/2006 13.25]

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