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Ludovico Ariosto

Ultimo Aggiornamento: 09/01/2007 07:35
09/01/2007 07:35
 
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E’ il più grande dei poeti cavallereschi della letteratura italiana del Rinascimento.
Nacque a Reggio Emilia, primo di dieci figli del capitano di quella rocca. Avviato alla pratica militare fu comandante di guarnigione. In seguito, per volere del padre, studiò controvoglia legge all’università di Ferrara, partecipando però anche alla vivace vita di quella corte.
Finalmente, lasciato libero di scegliere, si dedicò allo studio della letteratura latina, impegnandosi in una sua produzione poetica.
Alla morte del padre, per la non florida situazione economica della famiglia, l’Ariosto fu costretto ad una carriera diplomatica ed amministrativa. Svolse i propri servigi presso la corte degli Este per il Cardinale Ippolito e successivamente per Alfonso, ricevendo numerosi incarichi fra i quali quello di governatore della Garfagnana. Questo stile di vita, a lui non congeniale, viene così manifestato in uno dei suoi scritti:
«Chi brama onor di sprone o di capello,
serva re, duca, cardinale o papa;
io no, che poco curo questo e quello».
[Ludovico Ariosto, Satire, III]
Nel 1525 poté finalmente ritirarsi nella sua Ferrara, sposare la donna amata in segreto da tanti anni, e dare l’ultimo tocco alle ottave dell’Orlando Furioso. Il capolavoro poetico dell’Ariosto, uscito nella sua edizione definitiva in quarantasei canti (le due precedenti del 1516 e del 1521 ne avevano quaranta), rappresenta il poema epico per eccellenza sviluppato fra realtà e fantasia lungo tre filoni:
la guerra tra Cristiani e Saraceni, l’amore del paladino Orlando per Angelica, e le passioni contrastanti tra Bradamante e Ruggero capostipite degli Estensi. Di Ludovico molto si è discusso riguardo al carattere sornione, appartato, contemplativo, ma dei suoi rapporti con la tavola sembra ci sia un’interpretazione più univoca. L’Ariosto preferiva consumare le libagioni semplici, cotte in casa, più che le ricche portate dei banchetti rinascimentali.
A conferma, eccovi un suo scritto che esalta la patata dell’epoca: “la rapa”, il principale sostentamento dei ceti rurali.
«In casa mia mi sa meglio una rapa,
ch’io cuoca, e cotta su ‘n stecco me inforco
e mondo, e spargo poi di aceto e sapa,
che a l’altrui mensa tordo, starna o porco
selvaggio; e così sotto una vil coltre,
come di seta o d’oro, ben mi corco.»



09/01/2007 07:35
 
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Rape cotte alle brace de l'Ariosto
Prendere delle rape, infilzarle in uno stecco e cuocerle alla brace di un fuoco scoppiettante.
Presentarle direttamente sul piatto di portata condite con olio, aceto, sale e pepe.
Per esaltare ancora di più le rape dell’Ariosto, sostituire l’aceto con della sapa.
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