00 21/12/2004 21:46
( Ivonne: “il silenzio”, un film che ami, che ti fa impazzire: ora questo silenzio io lo abito e ne faccio la mia casa, ora nel silenzio non sei più le mie parole Ivonne, la mia cara Ivonne. Ora nel silenzio sei la pausa stessa tra le parole, che le divide, che le tempra e che quindi le conferisce fisionomia spazio e senso. Non stai ferma, anche quando dormi vivi pienamente e nel sogno ti agiti, parli, come se non abbassassi mai la guardia. Ti ha fatto male Ivonne non capire, o mancare il bersaglio per non aver ben calibrato il tiro? Certo, come quel tiro che poi mi son trovato sul costato e che mi porto appresso come fosse parte del mio corpo. Buffo: tu che ti senti senza un arto e io che vivo come con una protesi naturale in più. Tu non ti stanchi, tu guardi il rovescio delle cose, e anche se in ginocchio non cadi. Ivonne, sei la mia Alice che salta nello specchio per inventare un mondo che non c’era )

Prendo parola, schiarendomi la voce prima di salire sul palco e mi guardo le mani implorando di non tremare.
C’è un attimo che precede l’ultima parola in cui tutto ancora pare risolvibile.
Io racconterò attraverso i personaggi di questo viaggio e il bene e il male che naturalmente vestono la pelle.
Non cercherò la folla, ma un punto inesistente supponendo che nel buio della sala ci sia il tuo sguardo, che leggermente scricchiola ad ogni passo.
Il mio corpo ora non esiste, è altrove, sono personaggio che si muove su un sipario lento, fino a scoprire nella luce la forma del mio essere.
Dicono che gli occhi lucidi non si vedono da lontani, per questo noi attori badiamo allo sguardo. Qua non vi sono primi piani o zoomate, siamo presenti e in realtà molto lontani.
Il gesto, il corpo, si estraneano, ma lo sguardo ci tradisce, e quindi lo carichiamo di colore, apparentemente per far vedere meglio, ma in realtà per nascondere. Perché non possiamo dare il cuore fino in fondo e gli occhi sono lo specchio di ciò che siamo, il gesto invece di ciò che facciamo.
Ci sono appunti sul copione dove la vita narrata prende il sopravvento su quella vissuta, e lo sdoppiamento tra persona e personaggio crea un nuovo essere, fino ad allora inesistente.
Antigone fa la sua guerra, personale e eterna, e va alla morte sapendo di non consumarsi nel tempo.
Sfida, tra ribellione e dolcezza, non contando altra legge se non quella del proprio essere.
Lui a Cuba si era perso e ritrovato, senza nome, per essere invisibile. Mi aveva dato il nome, la certezza di esistere e la prontezza di credere che non c’è re per il quale valga la pena morire, mi instillò fra le membra l’istinto della guerriera e della luna: “ Siamo uguali, io e te, abbiamo bisogno di tutti e di tutti possiamo fare a meno”. Le parole di Gianluca tornarono come uno schiaffo in quel momento che pareva non passare mai. “Sappilo.... sono pronto a salire su qualsiasi rogo, Solo a sapere che mi guarderanno - I tuoi occhi....”.
Forse allora non avevo capito appieno il senso dell’amore, adesso lo sentivo sulla pelle, anzi dentro le ossa, e sapevo cosa significasse viverne e morirne.
E’ così il bagliore primordiale di ogni mio sguardo.
Quasi inchinandomi al destino dell’attimo, mi chiedo con quale immagine Antigone vuole morire sepolta viva?
Voglio l’ultima immagine di te, di te e di me, di quando il due è divenuto uno per restare tale.
Sono qua, declamo e guardo, scandisco parole che non hanno età con il vigore di chi le ha vissute: gli occhi lucidi nessuno li può notare, schiaccio il tempo delle battute con il metronomo impazzito delle sensazione respirate.
Antigone muore ma vede lui.
Lui nella città dorata al tramonto, ebbra di luce e di turisti lungo il fiume, con la torre a spiare dalla finestra. Le scale di fretta, i nodi sciolti nel pensiero e sul corpetto, scostare la gonna e quindi scivolare con le dita fra le autoreggenti e nelle pieghe del perizoma. Appoggiarsi con lo sguardo e tenersi le mani sul muro, sentirti dalle spalle dentro di me e prendersi, e avvertirlo davvero tutto il tremore del trovarsi e del perdersi nell’attimo stesso impazzito del senso. Sui fianchi spingere fino in fondo la rabbia e la passione, e sapere che dopo niente più sarà.
Nello specchio di fianco nutrirsi degli sguardi concitati nell’amplesso. Vibrare, così, senza fermarsi e fondersi, per il tempo che resta, per il tempo che fugge, per il tempo che non torna.
Così Antigone dice addio alla vita, pur di non tradirsi: scelgo questo come ultimo sguardo sul mondo mentre ancora risorge nell’ennesima interpretazione, scelgo il furore dell’intramontabile istante in cui ci siamo appartenuti, scelgo di andare e venire dalle ceneri sulla scia dell’araba fenice. Poi il sipario si scioglie, e anche il pianto diventa percorso. E ritorno a vedere il resto, gli altri, il fuori da qui, il mio tempo, la mia strada. E ogni cosa torna al suo posto, il colore resta sulla salvietta. Cammino, nessun bagaglio, solo lo sguardo che ho scelto e che niente e nessuno mi potrà togliere, lo sguardo che non ho bisogno di chiamare perché so che c’è, nel sempre.

( Ivonne, guarderò allontanarti, guarderò perderti trovarti mischiarti le carte, seppellirti e risorgere, ti guarderò vivere e mai saremo soli, l’amore che si dà, non torna mai al suo posto, viaggia per non sigillare mai definitivamente nessuna storia. Ivonne. )
Eri
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La vera autenticità non sta nell'essere come si è ma riuscire ad assomigliare il più possibile al sogno che si ha di se stessi. (P.Almodovar)